CULTURA

Quando ogni idea è nelle cose

Morta a 87 anni la scrittrice e critica letteraria inglese, aveva vinto il Booker Prize nel 1990 con «Possessione»
FRANCESCA BORRELLIgb

In questa pagina, è riproposta parte dell’intervista che Francesca Borrelli fece in occasione del festival di Mantova il 3 settembre del 2003, incontrando l’autrice, notoriamente schiva, a Torino.
La scrittrice britannica A.S. Byatt, che vinse il Booker Prize nel 1990 col suo romanzo «Possessione» (pubblicato in Italia da Einaudi, come gli altri suoi romanzi), è morta all’età di 87 anni. Lo ha annunciato il suo editore Penguin Random House. Nata nella città inglese di Sheffield nel 1936 e formatasi all’Università di Cambridge, Byatt ha insegnato alla Central School of Art and Design e allo University College di Londra tra il 1972 e il 1984. Fra i suoi libri (in Italia con Einaudi), «Possessione» - da cui nel 2002 è stato tratto un film con Gwyneth Paltrow -, «Tre storie fantastiche», «Angeli e insetti», «La torre di Babele», «Le storie di Matisse», «La vergine nel giardino», «Natura morta», «Una donna che fischia», «La Cosa nella foresta», «Il libro dei bambini», «Ragnarök», «Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris».

Forse non è governato da un principio razionale il progetto di pubblicare in Italia i libri che compongono la tetralogia ideata da Antonia Byatt in un ordine diverso da quello da lei predisposto. Infatti, la prima volta che ci imbattemmo nella protagonista, Frederica Potter, buona parte delle sue esperienze formative le stavano già alle spalle, e tutto ignoravamo dei suoi trascorsi giovanili, che occupavano circa ottocento pagine di due libri precedenti, ma solo successivamente tradotti. Tuttavia, non c’è dubbio che dopo l’incredibile successo di Possessione, la scommessa di attirare il lettore nella nuova, immane trama che la Byatt andava tessendo si giocasse tutta nella Torre di Babele, il romanzo tradotto per primo, nonostante formasse il terzo quadro della tetralogia: perché è tra quelle pagine che i personaggi acquistano una vivacità e un carattere tali da indurre il desiderio di non abbandonarli più.
Nel volume inaugurale, la Vergine nel giardino, dedicato al figlio perduto in un incidente stradale, la scrittura di Antonia Byatt era ancora affaticata dalla sua vocazione saggistica, da una erudizione insufficientemente mascherata, dal bagaglio mai deposto delle troppe reminiscenze letterarie che affollavano la pagina, dove il gusto dell’intreccio e la vitalità dei personaggi guadagnavano a fatica il respiro di una autentica felicità narrativa.
Ora che il secondo movimento del quartetto ci viene restituito con il titolo Natura morta (sempre grazie alla appassionata traduzione di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti per Einaudi) la consolazione di potere proiettare sulle figure ancora indistinte che lo popolano la luce di cui saranno investiti nel libro seguente - La Torre di Babele, appunto - ci aiuta a motivare la nostra partecipazione alle loro vicende.
Della famiglia Potter, riguardata dalla proverbiale vocazione inglese a sdrammatizzare le avversità della vita, tra le pagine di Natura morta seguiamo soprattutto i tre figli: la materna Stephanie, sposata al pastore di scarsa fede Daniel Orton, è senz’altro la più attraente dei tre, sebbene anche su di lei Antonia Byatt proietti una cerebralità che, tanto per dirne una, la fa «odiare alla maniera di George Eliot» e amare con le riserve di una vocazione intellettuale sacrificata alle incombenze familiari. Il fratello Marcus è un ragazzo disturbato, ma non tanto da staccarsi narrativamente dallo sfondo, se non grazie a quegli impacci ben descritti, di cui cade vittima a fronte di richieste emotivamente troppo cariche. Ma la vera protagonista, qui come in tutta la tetralogia, è Frederica, adolescente per lo più ritratta nell’ambiente del college dove studia, e dove consuma le sue prime, scriteriate avventure sessuali. Se non fosse per una irredimibile povertà di inventiva, Frederica si darebbe alla tessitura di romanzi. Il suo passato l’ha vista calcare le scene del teatro, il presente è ancora filtrato da una ambizione sufficiente a giustificarle l’epiteto di «squalo intellettuale», e il suo futuro reclama uno status sociale per il quale ci vuole un marito: lo individuerà nel bel personaggio di Nigel Reiver, un filibustiere dal quale sarà impegnata a separarsi violentemente nel corso del libro successivo.
Studenti e professori di Cambridge ruotano sullo sfondo a animare debolmente il contesto, tra loro il solo dotato di un profilo originale è Raphael Faber, ebreo tedesco umorale e tendenzialmente misantropo le cui barriere difensive Frederica cercherà invano di sfondare. Così va la vita, o quel che di essa filtra tra le mura di un college, mentre la Storia si prepara di lì a poco a registrare la crisi di Suez e l’invasione dell’Ungheria. Finché il capitolo finale del libro, di gran lunga il migliore, spezzerà l’incantesimo investendo anche gli interni della famiglia Potter di una assurda tragedia.
Antonia Byatt è una scrittrice notoriamente schiva, è restia alle interviste e paventa i bagni di folla. Perciò decide di dosare gli impegni e chiede di andarla a incontrare a Torino, dove era di passaggio prima di approdare al Festival di Mantova.
Proviamo a sorvolare rapidamente l’intera architettura di questa sua tetralogia, cominciata venticinque anni fa e appena conclusa con il romanzo titolato «The whistling woman» (La donna che fischia), uscito questa estate in Inghilterra. Come si è assestato il suo progetto narrativo via via che prendeva corpo, e qual è il bilancio di questa sua fatica distribuita in circa 2000 pagine?
Fin dall’inizio avevo intenzione di scrivere un lungo libro, al quale mi sarei dedicata a piccole dosi, nei ritagli di tempo che mi lasciavano i miei figli, allora molto piccoli. Lo immaginavo come un romanzo destinato a scorrere lungo la mia vita come un fiume, costruito tramite una architettura aperta. E pensavo sarebbe stato un libro sulla contemporaneità. Infatti, il prologo della Vergine nel giardino è ambientato nel `68, ma poi la narrazione torna indietro ai primi anni ’50. Quando ho terminato l’ultimo romanzo avevamo passato la soglia del 2000, perciò questa tetralogia ha finito per diventare «storica»: ecco la differenza più importante rispetto al progetto iniziale. La stampa inglese insiste nel domandarsi come mai i nostri scrittori non si occupino del presente. Io avevo intenzione di farlo, ma tutto sommato l’avere composto un grande romanzo storico ora mi sembra un fatto positivo. Un altro elemento stabilito dall’inizio riguarda il contrasto tra scienza e religione. Fin da subito sapevo che alla fine dell’ultimo romanzo avrei inserito una conferenza sui rapporti tra mente e corpo, sollevando domande che oggi sono di estrema attualità. Tutto questo mi è costato un grandissimo lavoro, ho studiato molto, ho scambiato una corrispondenza interessante con alcuni scienziati attenti agli aspetti metaforici del linguaggio e preoccupati dal dibattito sulle analogie tra mente e computer. Avrei preferito che questa tetralogia fosse ancora più lunga, perché - come diceva Tolkien - qualcosa finisce sempre col restare fuori. Quando Henry James cominciò a scrivere Le ali della colomba, disse che nel dare inizio a un romanzo si ha sempre l’ambizione di catturare il mondo intero. A dire il vero, io volevo raccontare solo frammenti di realtà, e forse per questo ho inframezzato la scrittura di alcuni racconti; perché implicano una prospettiva parziale, che permette, tra l’altro, di dedicarsi con più gusto alla scrittura.
Il lettore che segue i libri organizzati intorno alla vita di Frederica Potter si accorge con sollievo che le tentazioni saggistiche dell’autrice cedono via via alla sua attitudine narrativa. Fin qui, tra le pagine di «Natura morta», Frederica impara di più dalla letteratura che dalla vita. Ma già nella «Torre di Babele» il rapporto si capovolge, e finalmente le emozioni guadagnano spazio. È d’accordo?
Sono d’accordo, più si va avanti, più le passioni prendono il sopravvento sulle idee mutuate dalla letteratura. Frederica risente di una educazione limitante, com’è stata quella della mia generazione. Anch’io mi sono formata prevalentemente sulla letteratura, e quasi solo sugli autori inglesi. Imparavamo interi poemi a memoria, e questo ci insegnava a coltivare l’amore delle parole, mentre ora i giovani preferiscono occuparsi di teoria della critica. Io nasco come saggista, sono vissuta in una enorme soggezione per i nostri grandi scrittori, e poi col tempo ho perso interesse per la teoria letteraria, mentre è cresciuta in me la narratrice. Ora mi sento pienamente realizzata come autrice di romanzi.
Tra le pagine di «Natura morta» i personaggi si presentano ancora come figure indistinte, debolmente caratterizzate. Mi domando se è voluto, ossia se essendo ancora molto giovani devono scontare l’incertezza di una identità non ancora acquisita; o se la sua abilità descrittiva sia cresciuta nel tempo, come il frutto di un apprendistato al romanzo maturato via via.
Una parte del progetto prevedeva, in effetti, di accordare il carattere dei personaggi alla loro età, ed è ovvio che la giovinezza comporti identità ancora sul vago. Certo, nella Torre di Babele gli stessi caratteri saranno precisati meglio, anche perché il libro è investito da una vena satirica e questo aiuta a definire i profili. Inoltre, la mia idea prevedeva di presentare gruppi di persone accomunate da uno stesso modo di parlare, dotate di un linguaggio condiviso, e anche questo elemento contribuisce a disegnare le fisionomie con più precisione. Ma c’è anche un diverso aspetto del mio progetto secondo cui Natura morta avrebbe dovuto essere il mio libro biologico, al centro del quale stanno il sesso, la nascita, la morte. Per descrivere tutto questo mi ero proposta di evitare l’uso di metafore, di figure retoriche. Volevo nominare le cose stesse così come si presentano alla percezione. Ma era una pretesa impossibile da realizzare, infatti non ci sono riuscita.
In effetti, specialmente «Natura morta» risente di una tentazione fenomenologica...
È vero, ma più ancora - dati i miei interessi scientifici - mi è stato maestro Wittgenstein, e soprattutto il poeta americano William Carlos Williams: nessuna idea se non nelle cose - diceva. Inoltre, io sono stata allevata nella letteratura inglese, le cui virtù stanno nella concretezza, nel creare cose piuttosto che astrazioni.
In molti dei suoi libri è evidente come lei si senta a casa non solo nella letteratura, ma anche nella pittura. In «Natura morta» la narrazione è intervallata da frequenti osservazioni su Van Gogh, nonché da brani delle sue lettere al fratello Theo. Dal suo racconto «Zucchero» abbiamo appreso che lei passò un lungo periodo di tempo a Amsterdam, mentre suo padre era ricoverato in ospedale, e nel tempo libero andava spesso al museo Van Gogh. Per questo il pittore olandese ha un ruolo protagonista nel suo libro?
No, c’è una ragione che riguarda la struttura del romanzo e poi ce n’è una istintuale; ma i ricordi autobiografici non c’entrano. L’aspetto istintuale sta nel fatto che quando cominciai a scrivere Natura morta vedevo questo romanzo colorato di viola scuro. Allora pensai che mi sarebbe stato necessario un colore complementare, non potevo andare avanti a scrivere un libro investito di una tonalità così buia. E mentre riflettevo sul colore di cui avevo bisogno, vidi davanti a me La sedia gialla di Van Gogh. Era proprio lui il pittore che faceva al mio caso, perché non cerca di connettere religiosamente la pittura ai concetti, va diritto alle cose come appaiono. Anch’io cerco di procedere così nel libro, volevo fosse un romanzo domestico, fatto di sedie, oggetti, interni di case, bambini, e volevo guardasse alla natura fattuale di quel che accade: come fa Van Gogh, e questa è la ragione strutturale per cui l’ho scelto.

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