CULTURA

Cecily Brown a Firenze, tra demoni, tentazioni e anarchie amorose

MUSEO DEL NOVECENTO
ARIANNA DI GENOVA ITALIA/FIRENZE

Lotta contro i demoni e i tormenti che infliggono l’artista inglese Cecily Brown (è nata a Londra nel 1969), ma lo fa a modo suo, con una forza centrifuga che disintegra la figura impastandola nei colori puri della tavolozza o lasciandola evaporare in dissolvenze incrociate, rarefatte, intrise di sgocciolature. Guarda (con disinvoltura) alle Tentazioni di sant’Antonio, una tavola messa in disparte nella cappella del Museo del Novecento di Firenze (è una versione di epoca rinascimentale che trae origine dalla medesima incisione di Martin Schongauer da cui discende anche quella attribuita al giovanissimo Michelangelo) e cesella frammenti di corpi in un furore di vortici cromatici, linee elettriche, segni anatomici, impigliandoli nel groviglio delle sue Abstract narratives.
Brown sa giocare con i motivi della sua ispirazione, vive fino in fondo la sua affinità elettiva con le iconografie degli antichi maestri, El Greco in primis, rivendicando nella pittura – genere che ha praticato con grande libertà e in dialogo con il passato soprattutto dopo il suo trasferimento a New York – la «sensazione di qualcuno che prende ciò che vuole quando è necessario, lo rigira e lo riconsegna profondamente mutato».
Cresciuta nel Surrey in un ambiente intellettuale – è figlia della scrittrice Shena Mackay e del critico d’arte David Sylvester, tra i primi a sostenere e comprendere l’arte ebbra di Francis Bacon – Cecily Brown ha scelto di evidenziare l’eccesso della materia pittorica, in una carnalità esibita e allusa che quasi confligge con le poetiche concettuali che hanno attraversato la sua generazione.
La mostra, a cura di Sergio Risaliti, per la prima volta conduce Brown a Firenze con circa trenta suoi lavori, tra cui dipinti e opere su carta, snodandosi tra il Museo del Novecento e Palazzo Vecchio. Qui, campeggia su un cavalletto alla vecchia maniera, come in un atelier dell’Ottocento, un solo dipinto, questa volta figurativo: siamo nella stanza segreta – il Camerino di Bianca Cappello, amante del Duca Francesco I de’ Medici – e il quadro è un omaggio all’impudicizia anarchica dell’amore e alle reminiscenze mitologiche.
Ancora il corpo come elemento scultoreo che «altera» il paesaggio naturale con la sua presenza ineludibile è quello che si incontra al secondo piano del museo: in Beauty and desire Robert Mapplethorpe viene posto in un confronto suggestivo con gli scatti del fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden (che collocava i suoi modelli in ambienti pastorali e idillici) e una selezione di immagini dall’Archivio Alinari.
a. di ge.

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