CULTURA

La condizione umana in uno specchio

«Untrue Unreal»: la personale dell’artista a Palazzo Strozzi di Firenze
ARIANNA DI GENOVAgb/italia/firenze

«Ciò che è imperscrutabile e illusorio fa parte dell’essenza di ciò che noi siamo. In fondo, esistiamo per un tempo molto breve e non sappiamo cosa ci sia prima dell’inizio né dopo la fine. Questo pensiero è connaturato con la disperazione della condizione umana».
Le parole di Anish Kapoor per spiegare il titolo della sua personale ospitata a Firenze presso Palazzo Strozzi, Untrue Unreal, deragliano dalla mostra stessa e si inoltrano lungo un sentiero che l’artista ha sempre sondato con le sue opere enigmatiche, perennemente in bilico fra visibile e invisibile. Dall’inganno della percezione in quei neri convessi e concavi che sembrano «buchi», dalle colonne infinite e brancusiane che svettano oltre il soffitto per conquistare il cielo scompigliando le partiture architettoniche, da quel padiglione misterioso che si fa rifugio inghiottente interrompendo la simmetria del Rinascimento (l’installazione site specific nel cortile di Palazzo Strozzi) si passa a una visione filosofica che sostituisce l’apparente dualità di sensi e mente con un organico ed evocativo «tragitto interiore».
LO SPETTATORE CHE SI AGGIRA per le sale è sospinto ad uscire dalla contemplazione meditativa per tornare al mondo contemporaneo: incertezza, precarietà della bellezza e un’aliena e pungente sensazione di dolore. Non sono giocose le sculture di Kapoor, neppure quando inventa i suoi colori iconici per ridisegnare i confini degli spazi con continui sfondamenti e rovesciamenti, invitando a camminare in ambienti alternativi a quelli reali.
I rossi brillanti che si sfarinano sul pavimento così come i blu elettrici di meteoriti arrivate da chissà dove, o i neri alchemici, metafisici, che ci risucchiano, rendendoci simili a una disorientata «Alice nel paese delle meraviglie», mantengono stabile un retrogusto malinconico. Sempre, quella che lui chiama «la poetica degli oggetti» è una trama che si tende fra la vita e la morte, un arcipelago di forme residuali che si ancorano tenacemente alla terra, nonostante tutto.
Anish Kapoor, britannico, nato a Mumbai nel 1954 da padre indiano e madre ebrea-irachena, crede fermamente nel passaggio di testimone fra antenati e nuove generazioni, anche se oggi si vede costretto a constatare che il sospetto culturale ha preso il posto della fiducia prima accordata all’atto del tramandare sapienze antiche. Dentro di sé custodisce molte appartenenze ma non amando le etichette, questo artista ha piantato le sue radici negli sconfinamenti, anche percettivi.
NELLA RETROSPETTIVA fiorentina, organizzata dalla Fondazione di Palazzo Strozzi, a cura di Arturo Galansino (visitabile fino al 4 febbraio 2024), il percorso espositivo che prevede un susseguirsi di tappe storiche per giungere al presente è stato creato insieme all’artista. E allora non è casuale che l’itinerario immersivo si apra proprio con Svayambhu, un’installazione monumentale e impressionante che racconta del tempo, della fine, della metamorfosi di ogni cosa (un enorme muro di cera si sposta e sgretola, attivato da un dispositivo meccanico; il suo movimento modula stratificazioni e «contamina» le architetture con schizzi sanguinolenti), a prescindere dalla propria volontà. La parola scelta per il titolo, in sanscrito, definisce ciò che si genera autonomamente, che è «sorto da sé». È qualcosa di ineluttabile.
Kapoor scultore è un unicum nel mondo dell’arte perché ha introdotto l’assenza nel corpo stesso dell’opera «solida». Darkness, specchi che sdoppiano invertendo gli ambienti e immaginari reperti ancestrali sono i suoi soggetti sentimentali, quelli che disciplinano i concetti astratti e la geometria delle forme, trascinandole dentro un mondo viscerale. È quasi una vertigine quella che si sperimenta, ribadita poi dall’uso «disordinato» della cera pura.
NEGLI ANNI PIÙ RECENTI, infatti, il nitore matematico, seppure ambiguo, delle sue sculture ha barcollato a favore di un prorompere di vita (anche sessuale) mista ad angosciose ferite – lo abbiamo visto a Venezia, nella mostra profondamente barocca allestita presso le Gallerie dell’Accademia nel 2022). La trasformazione della materia ha preso il sopravvento, rendendo tutto precario e orfano di una narrazione possibile se non seguendo la linea inesorabile del tempo. Per l’artista, pigmenti, strati di cera, specchi sono una pelle che riveste le sue opere come una matrice originaria e dagli attribuiti magici.
«Nella pelle – dice Kapoor – c’è una sorta di irrealtà implicita che ritengo meravigliosa». La capacità di abbandonarsi allo stupore di fronte ai vuoti, ai frammenti di materia che abitano il mondo come oggetti non più fisici ma intimi, resta così l’atteggiamento migliore per avvicinarsi alla sua arte dalle sfumature esoteriche. In fondo, sostiene l’artista, «se affermassi con insistenza che queste forme sono uscite da una cava come blocchi blu di Prussia, mi credereste».

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