Perché ci si traveste? Per nascondersi dal proprio sé o per cercarne un altro? Per eliminare il passato o per avventurarsi nel futuro? Insomma, per mimetizzarsi o per trasformarsi? Douglas, il personaggio principale del nuovo film di Luc Besson, Dogman, in concorso alla Mostra di Venezia, sembra oscillare per entrambe le opzioni. Ha una dolorosa vita alle spalle e il desiderio di incarnare figure diverse da quella originale, un po’ per dimenticare, un po’ per la curiosità di immaginarsi diverso, nuovo. Si adatta alle situazioni ma è anche capace di regolare l’ordine degli eventi. Quando la polizia lo trova ferito su un furgone con a bordo decine di cani, vestito e truccato per uno spettacolo di Drag Queen, Douglas (Caleb Landry Jones) appare come un enigma irrisolvibile. Cosa ha combinato quel giovane dall’aria estremamente calma, con forti difficoltà motorie, sorretto da una specie di armatura che avvolge le gambe e costretto, per lo più, a stare su una sedia a rotelle?
ALLA CENTRALE di polizia, interrogato da Evelyn (Jojo T. Gibbs), la psichiatra alla quale sono affidati i casi più complessi, quel misterioso individuo inizia a parlare, a spiegare, a ricostruire le sue molteplici identità, a rivelare incredibili storie. Capiremo, allora, quali dolori abbia vissuto in passato, cosa abbia causato quella disabilità, perché sia così legato ai cani e come mai quel gruppo di animali abbia deciso di assumere la forma di un esercito perfettamente addestrato e compatto nell’eseguire i suoi ordini.
Besson lavora nuovamente con la figura dell’eroe sconfitto che resiste, si modifica, non si arrende, prende colpi e sorprende per le sue reazioni pianificate. Douglas era un ragazzino debole, ora è un adulto ancor più fragile che in apparenza può far poco contro la malvagità di questo mondo. Eppure, con i suoi cani, che a differenza degli umani non lo tradiscono mai e nel loro amore non possiedono secondi fini, può realizzare i propri obiettivi e sconfiggere tutte le avversità. Chiuso in un bunker, si protegge e attacca, simile a un eremita, talvolta prossimo a essere un «padrino» che, senza farsi baciare la mano, offre il proprio aiuto. Ovviamente, il solitario che con ogni mezzo lotta contro il male, cela una fascinazione per ciò che si vorrebbe (e dovrebbe) combattere. Il regista francese, come d’altro canto molti suoi colleghi, non si oppone all’idea che sangue chiami altro sangue, che violenza attiri altra violenza. Niente di nuovo da questo punto di vista, nella finzione come nella realtà quotidiana.
È IL CONTINUO ripetersi di trame che indicano perentoriamente da che parte stare, chi giustificare e chi colpevolizzare. Senza troppi sforzi e riflessioni, lasciandosi andare allo spettacolo con una piccola aggiunta, tra gli ingredienti, di moralità e teologia. L’esito è un intrattenimento fine a se stesso, rispecchiato dalle musiche eterogenee che accompagnano il film, dalla colonna sonora di Éric Serra ai brani interpretati da Édith Piaf, Marlene Dietrich, ZZ Top, Marilyn Monroe, Eurythmics, oltre al celebre standard di Miles Davis, So What.