VISIONI

«Perfect Days», ritorno a Tokyo sulle tracce del presente

WIM WENDERS IN COMPETIZIONE
CRISTINA PICCINOfrancia/cannes

Era il 1985 quando Wim Wenders si avventurava alla scoperta del Giappone in quello che rimane fra i suoi film più belli, Tokyo-Ga, omaggio al cinema dell'amato Ozu, e il racconto di un mondo che si dischiudeva frenetico e misterioso ai nostri occhi come una (possibile) invenzione di futuro. Wenders e Ed Lachman alla fotografia cercavano le tracce nella metropoli giapponese del regista di Viaggio a Tokyo – da cui il film prendeva il titolo – confuse in una modernità folle, sfrontata e insieme seducente di neon, giocatori di pachinko, cibi plastificati, look spaziali. Un altrove che si faceva già immaginario. E adesso?
IN QUESTO RITORNARE a Tokyo tanto tempo dopo, e sulla Croisette nel concorso - che si chiude oggi con La chimera di Alice Rohrwacher e The Old Oak di Ken Loach - e la Palma d'oro per Paris, Texas, ma anche Tokyo-Ga venne presentato al festival di Cannes - Wenders guarda ancora una volta al paesaggio (sentimentale) dei film di Ozu, lasciando però fuori campo (quasi) il flusso metropolitano del presente per «esaltare» quanto rimane del suo maestro. I luoghi di Perfect Days potrebbero essere ovunque, a parte scorci che appaiono ogni tanto, potrebbero anche essere in un altro tempo. A «guidarlo» c'è un personaggio per il quale tutto si è congelato: passato, presente, futuro poco importa: «Adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta» ripete alla nipotina Hirayama che lo adora – è il magnifico attore Koji Yakusho, visto nei film di Imamura, Aoyama, Kyoshi Kuroswa, Inarritu. L'uomo vive solo in una casa piccola e piena di piante, le sue giornate si ripetono uguali in quel quartiere di minuscoli caffé famigliari, frequentati dalle stesse persone, la libreria che vende a un dollaro Patricia Highsmith e la giovane (e incompresa) scrittrice giapponese contemporanea, le stradine dove va in bicicletta al bagno turco o alla lavanderia, e quei ristoranti al bancone pieni di altri solitari come lui.
«PERFECT DAYS» risuona nella voce roca di Lou Reed dal nastro che ha una grana diversa da Spotify. Hirayama lavora come pulitore nelle toilette pubbliche di Tokyo, sempre immacolate, fa il suo lavoro con cura quasi maniacale, cosa che il giovane assistente non capisce: «Tanto le sporcheranno subito». Anche questo è un rituale, Wenders lo filma come tale accompagnando i gesti del suo personaggio; siamo a Shibuya, le toilette sono state rinnovate, hanno forme strane, cilindriche, vetri trasparenti che si offuscano appena si chiude la porta, una dopo l'altra nelle loro architetture ricercate appaiono come la sola presenza costante di contemporaneità. Ne è affascinato per come le osserva, per quel mondo strano in cui le pone al centro rispetto a qualsiasi altro orizzonte, segno di un quotidiano e di uno spazio pubblico di cui, come ha detto in una intervista, non c'è imbarazzo a differenza che in altri paesi. Durante la pausa Hirayama fotografa gli alberi con una vecchia macchina analogica, anche il suo giorno di riposo ripete sempre la stessa trama. Ogni tanto qualche piccolo imprevisto rompe la routine: un foglietto misterioso lasciato in una toilette, un bambino dimenticato dalla mamma.
La notte in bianco e nero le visioni popolano i suoi sogni, sono ricordi, desideri, misteri?
Ma che film è allora Perfect Days? Nella cifra quasi di «osservazione» della parte iniziale, che verso il finale sembra avere bisogno di appoggiarsi all'improvviso a una suggestione di sceneggiatura, Wenders mette in scena appunto una sorta di controcampo del suo primo «Viaggio a Tokyo» (il film è girato dove il regista giapponese girò Il gusto del sakè, 1962): lì quella modernità era un'esperienza imprevista, qui la tralascia con decisione di «ricostruire» un paesaggio che è quello cinematografico, il suo, dei film (e della colonna sonora molto anni Settanta/Ottanta) che ama, quello di Ozu, di una memoria, di un futuro che non esiste più, che è già qui.
Non è solo questione di analogico versus digitale o di Spotify versus cassette audio – con la nostalgia vintage dei più giovani per ciò che non si è vissuto, e che le ha rese vere e proprie rarità rivendute a prezzi alti nei negozi specializzati. La melanconia del protagonista ci dice forse di una riflessione del regista su di sé, su ciò che è stato il proprio filmare, tra on the road e juke box, sul tempo e su un immaginario di cui da qualche parte rimangono le tracce. Che è importante non perdere.
C.PI.

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