CULTURA

Se la storia scorre ai bordi di due rive

Parla la scrittrice, artista visuale e regista autrice di «Al di là del fiume», Iperbore
INGRID BASSO finlandia/italia/torino

È un fiume impetuoso a disegnare il confine tra Finlandia e Svezia (Tornionjoki in finlandese, Torne in svedese, ma anche Tornionväyla in meänkieli, la lingua regionale dei finlandesi della Lapponia meridionale, e Duortneseatnu in sami settentrionale), un fiume dai molti nomi che invano tentano di definire una realtà inafferrabile e tumultuosa, come la storia della Finlandia. È questo fiume a fare da sfondo al nuovo romanzo di Rosa Liksom, Al di là del fiume (trad. it. di Delfina Sessa, Iperborea, pp. 286, euro 18), presentato all’ultima edizione del Salone del Libro di Torino. La scrittrice, artista visuale e regista lappone, è ormai un’icona in Finlandia: già Premio nordico dell’Accademia svedese nel 2020, è tradotta in diciassette lingue. Tra i suoi romanzi già usciti in Italia (tutti per Iperborea, tradotti da Delfina Sessa), Scompartimento Nr.6, 2014 – a cui è ispirato l’omonimo film di Juho Kuosmanen, vincitore del Gran premio della giuria al Festival di Cannes 2021, e La moglie del Colonnello, 2020.
Liksom sceglie questa volta di raccontare un episodio meno noto della storia del suo paese, l’evacuazione all’inizio del settembre ’44 da parte della popolazione lappone inabile a combattere – donne, bambini, anziani – dell’area impegnata dalle forze tedesche, per riparare in Svezia, «al di là del fiume», con bestiame a seguito. La storia della massiccia migrazione dei profughi con le loro mandrie è raccontata attraverso gli occhi di una tredicenne destinata in prima persona ad accorgersi di come non si scenda mai due volte nello stesso fiume, e di come all’orrore per l’abbandono di un vecchio mondo ormai in macerie si accompagni però un’elettrizzante e quasi colpevole aspettativa nei confronti di un mondo nuovo.

Quell’epoca di storia della Finlandia, sebbene lei non l’abbia vissuta in prima persona, è lo sfondo doloroso e pregnante dei suoi ultimi romanzi. Come ha influenzato, questa storia, il suo modo di fare letteratura?
Mi ha influenzata in modo radicale. Quando ero bambina ero arrivata a detestarla perché gli anziani del mio villaggio (Ylitornio, Lapponia, ndr) non facevano che parlare della guerra e dei brutti momenti vissuti. Non solo, si parlava anche degli anni precedenti, degli anni Venti e Trenta, era una costante. Ricordo gli interminabili pomeriggi con i parenti, davanti al caffè a ricordare il passato, mi sentivo quasi costretta a vivere in un’epoca che non era la mia. Ne ero così stanca, io che desideravo cogliere solo il presente, stare nel mio «oggi»… Per reazione ho lasciato il villaggio molto presto, sono diventata un’attivista ambientale: la natura vive eternamente nel presente. Ho fatto la squatter, ho vissuto per cinque anni nella città libera (anche dal passato) di Christiania nel collettivo di Autogena, producevo documentari, ero un’artista. Poi, intorno ai trentacinque anni, ho iniziato a interessarmi alla storia del mio paese e a capire che era importante per il mio presente. Ricordavo bene tutti quei racconti e così ho cominciato a riavvicinarmi a quel periodo. Studiare la storia della Finlandia è ciò che ho fatto negli ultimi trent’anni, perché è la mia identità e quegli eventi hanno un grande richiamo anche nel nostro mondo contemporaneo.

«Rosa Liksom» è uno pseudonimo non casuale. Vuole raccontarci come è nato e spiegarci perché ha deciso di pubblicare i suoi libri non firmandoli con il suo vero nome (Anni Ylävaara)?
Questo nome è un aspetto importante della mia attività di scrittrice. Avevo vent’anni quando ho iniziato a scrivere racconti e a ventidue avevo pronto un libro di brevi storie. Vivevo a Copenaghen, ma i miei genitori erano ancora in Lapponia, vicino al confine svedese, in un villaggio: andavo a trovarli tre o quattro volte all’anno e li aiutavo a occuparsi di renne e mucche, avevamo una piccola fattoria, la mia è una famiglia di contadini da diverse generazioni. Quando sono tornata in Finlandia per pubblicare il libro, ho deciso di usare uno pseudonimo perché avevo paura di come l’avrebbe accolto la gente del villaggio. Temevo anche la reazione dei miei genitori, di mia sorella e dei miei fratelli: ci sono voluti cinque anni prima che dicessi loro che quel libro l’avevo scritto io, e a posteriori posso dire che fu una buona decisione: mi permetteva di essere interiormente più libera. Inoltre, sapevo che se mi fossi presentata ai media come scrittrice sarebbe stato un disastro. Prima ho fatto leggere quel libro ai miei fratelli e alle mie sorelle, che poi l’hanno dato a mia madre – nel frattempo, di romanzi ne avevo già scritti tre. Mia madre sapeva leggere appena, aveva frequentato solo tre mesi di scuola, perché all’epoca a Ylitornio non c’erano tante possibilità. Sapeva anche scrivere a malapena, ma lesse il libro e disse ai miei fratelli che era molto bello (ride). Mi bastò. Ho iniziato a promuovere i miei libri nei media e ai festival di letteratura solo a partire dai cinquantun anni. È un po’ tardi, lo so, ma prima dovevo imparare a sentirmi a mio agio con me stessa, con i lettori, con i giornalisti.

«Rosa» è un omaggio alla rivoluzionaria Luxemburg, è vero?
Sì, è così, da giovane avevo grande ammirazione per le donne rivoluzionarie, per le attiviste che non avevano paura di prendere posizione, come Rosa Luxemburg. Un altro mio riferimento femminile era Aleksandra Kollontaj. Mi interessava la rivoluzione dal punto di vista femminile. Liksom invece è una parola svedese, significa «come», «così come»: nel collettivo studentesco in cui vivevo c’erano degli studenti finno-svedesi, alcuni studiavano filosofia e quando discutevano usavano sempre la parola liksom, l’ho scelta per questo.

C’è sempre una forte presenza della cultura russa nei suoi romanzi...
Per me quella cultura è fondamentale, ne ho subito il fascino e l’influenza sin da giovanissima. A quindici anni frequentavo il liceo nella città di Rovaniemi, che era più vicina al confine russo. Avevo sempre desiderato andare a vivere in una grande città, e quando abitavo lì ogni fine settimana ne approfittavo per «scappare» in autobus con gli amici a Murmansk, la città più grande a nord del circolo polare artico. Era un posto per giovani, andavamo alle feste, mangiavamo nei ristoranti etnici, una cosa strana per noi, Murmansk ne era piena e io ero curiosa. Al liceo avevo deciso di studiare russo come lingua a libera scelta, eravamo solo in sette al corso e così l’ho imparato molto bene. In seguito, ho anche studiato a Mosca, e viaggiavo spesso in treno da Mosca a Leningrado (sic). I «sovietici», come li chiamavamo allora, umanamente mi hanno dato molto, non solo loro, ma anche coloro che in Russia ci erano andati a vivere, perché avevo l’impressione che fosse facile comunicare con queste persone, una volta che ne conoscevi la lingua. Mi ricordavano i finlandesi, sebbene fossero certamente diversi, è come se i russi rispecchiassero solo i loro lati positivi: noi di solito siamo molto chiusi e silenziosi, mentre i russi amano stare insieme, sono meno individualisti rispetto a noi finlandesi, ci sono più contatti tra le persone. Forse hanno un modo di sentire diverso dal nostro, ma – almeno al tempo dell’Unione Sovietica – erano uniti tra loro, c’era una connessione stretta, che a volta poteva essere anche crudele, perché non lasciava spazio, ma sempre di connessione si trattava e io ne avevo bisogno. Ancora oggi una volta alla settimana, a Helsinki, ci ritroviamo in una decina di persone per parlare russo, è una lingua che non voglio dimenticare.

«Al di là del fiume» è un romanzo intenso, a tratti cupo, eppure riesce a essere allo stesso tempo molto spontaneo, naturale, addirittura «luminoso», come la sua protagonista.
Una delle cose che più mi stavano a cuore nel costruire questo romanzo era far vedere come la ragazzina fosse parte integrante della natura: non «in relazione» con la natura, ma parte della natura. Ne ha l’energia vitale, la spinta ad andare sempre avanti. Una delle ragioni principali per cui noi oggi abbiamo così tanti problemi mentali è perché non viviamo più all’unisono con la natura. Se avessimo mantenuto quella connessione con la natura, anche questo pianeta oggi sarebbe molto diverso. Io stessa ho vissuto fino a quindici anni nella foresta lappone e, in seguito, ho sempre mantenuto un contatto stretto con il mio paese natale, perché ho bisogno di provare ancora quel senso di appartenenza vitale. Attraverso la protagonista del mio romanzo ho voluto mostrare al lettore che è esistito un tempo in cui eravamo parte della natura. È vero che questa bambina a volte ha dei momenti bui, perché è un essere umano: non è un angelo e non è un albero, si pone delle domande sulla vita, però da quella cupezza riesce a riemergere velocemente, perché è lei stessa energia vitale, è curiosa e la curiosità è fondamentale, ci spinge ad andare avanti, a vivere in modi diversi, fuori dagli schemi. «L’idea di un’anima immortale era sgradevole e allo stesso tempo confortante»: è quello che prova la sua protagonista.

Lei pensa che l’anima sia immortale?
È un’idea alla quale si ricorre spesso perché può essere di conforto quando, per esempio, qualcuno viene a mancare… ma io non ci penso in quella circostanza: io penso alla vitalità e alla sacralità che l’anima ha mentre siamo ancora sulla terra. Non credo ci sia qualcosa dopo la morte, ma mentre siamo in vita e sentiamo la natura, ci accorgiamo di una sacralità che ci accomuna con il cosmo. È un’intuizione, questa, che abbiamo solo in particolari momenti della nostra esistenza e che io percepisco come momenti luminosi.

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