CULTURA

Il respiro affascinantee antico del vento

Un percorso di libri sul fenomeno, dalla sua nascita alle sue declinazioni
CLAUDIO CORVINOITALIA

Il suo potente soffio arriva ovunque: sugli oceani, sulle cime delle più alte catene montuose, tra foreste e deserti, per le strade di Trieste, dove gioca ad alzare le gonne delle donne e a far volare i cappelli, o increspa la superficie scintillante del Canal Grande. Scivola come un poderoso fiume celeste, come un drago sinuoso fiutando le impercettibili differenze di calore o plana nei versi dei poeti: «Fai di me la tua cetra, come già / tu fai della foresta: cosa importa / se come le sue foglie anche le mie / cadono» (Percy B. Shelley, Ode al vento occidentale, 1820).
È il vento, principio che impollinava i vegetali già prima che nascessero le api, che le stesse piante creassero l’atmosfera, scambiando ossigeno per luce. È lo stesso vento che accompagnò il Big Bang quando l’universo prese quel primo profondo respiro non ancora interrotto: «Quindi l’ali sicure a l’aria porgo; / Né temo intoppo di cristallo o vetro. / Ma fendo i cieli e a l’infinito m’ergo» (Giordano Bruno, De l’infinito, universo e mondi, 1584).
UN COSMO CHE VIVE e respira è una metafora, una perfetta affordance di un sistema circolatorio dove i venti sono arterie, capillari e gli umani frutti, portati in vita da una rûah divina: «e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen., 1, 2). Rûah, termine che richiama con la sua h aspirata lo stesso suono del vento o del respiro. Cosa sia il vento e come possa spingersi nell’immaginario umano, spirare tra le paline di una girandola di carta, premere vorticosamente all’interno delle pareti di una scatolina del vento donata da un bambino, far muovere un manichino di legno o arrendersi impotente di fronte una molletta per i panni, l’ho toccato con mano al Museo della Bora di Trieste, trasportato dal turbinio di informazioni, acute e divertenti, di Rino Lombardi, ideatore del «Progetto Bora Museum».
Dire di avere i piedi ben piantati per terra e la testa tra le nuvole, separando così il concreto dall’immaginario, il fisico dal pensiero è solo una convenzione, forse una fola. L’aria, la terra, l’acqua, il fuoco, sono della stessa materia nostra e la vita non è mai stata un ente isolato all’interno di un ambiente, piuttosto «fa degli ambienti un mondo, un cosmo che ha unità atmosferica» (Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, 2018). Di questa inquieta atmosfera dove proiettiamo ogni pauroso fattore imprevedibile – dal salto della cavalletta, al vento maligno o quello del destino – la maggiore preoccupazione degli umani è sempre stata quella di imbrigliare il vento, incanalarlo.
NELLE PALE DEI MULINI come in quelle eoliche, antenne che oggi disegnano i profili dei territori caduti ai margini dell’Italia: l’Appennino ligure, l’Irpinia, la Calabria. Il vento, il soffio, un tempo indirizzato nelle musiche dei pifferi delle Quattro Province, nelle cornamuse e ciaramelle dell’Appennino, ora è di nuovo libero di correre tra i crinali delle montagne, ma è muto, o fa un rumore senza melodia. Soprattutto, è per pochi, mentre fino a qualche anno fa entrava nei processi di produzione agricola alla pari di un contadino. Ancora oggi nelle campagne delle zone interne d’Italia raccolgo storie di quando si aurìava il grano al vento, quando cioè lo si lanciava in aria col forcone per farne volare via le impurità, la pula.
Prima delle pale, a imbrigliare il vento ci pensò il mito. Un giorno Coyote – raccontavano nell’antica tribù dei Coeur d’Alene, nell’Idaho – catturò Vento con l’intenzione di ucciderlo, ma questi lo implorò di lasciarlo in vita, e in cambio promise di soffiare solo quattro volte l’anno.
Anche il Mediterraneo ha conosciuto una transitoria pacificazione dei venti quando Eolo li rinchiuse nel sacco donato a Ulisse, ma durò poco, fino a che i suoi marinari non lo aprirono curiosi, facendoli disperdere nuovamente e disordinatamente sul mare.
Vola, travolge, penetra, feconda, si avvolge e gode di se stesso, autoalimentandosi. È un Caos primordiale che lo storico fenicio Erennio Filone (II d. C.) definiva il «vento scuro che si accoppia con se stesso». Un incestuoso caos atmosferico che le diverse civiltà hanno imbrigliato dando ai venti un nome, una direzione e una storia, dall’aurìa, all’uragano, allo zefiro.
UN INDOVINELLO riportato ne Il libro di Taliesin, un bardo britannico del VI secolo, recita: «Indovina chi è / creato prima del Diluvio / una creatura forte / senza carne né ossa / senza vene né sangue / senza testa né piedi» (The Book of Taliesin, 2019).
Caratteristiche che ritroviamo nei senza òss o sénza sanch, cioè senza ossa e senza sangue, folletti della Valsassina. Abitano le cappe dei camini, riempiendole di vento e di rumori, dividendo il loro destino e il loro nome con altre figure mitiche. Il linguista russo Dmitry K. Zelenin (Quaderni di Semantica, 1990) parlava di un forte vento chiamandolo bez’rukij, «senza mani» o «zampe», e Remo Bracchi (Nomi e volti della paura, 2009) segnalava a Malcesine, sul lago di Garda, aria sénsa pè, piedi.
Anche il vento quindi è un «senza sangue», certo perché incorporeo, ma anche perché legato ad antichissime memorie di serpenti e draghi celesti, esseri nelle cui vene scorre una linfa incolore e freddissima. Il demologo Paul Sébillot parla di dragons de vent che abbattono con la coda tutto ciò che li ostacola nel loro vorticoso cammino aereo e ancor oggi sull’Appennino ho registrato segreti scongiuri recitati per bloccarli all’istante là dove sono, tra le nuvole. È una tradizione molto antica, se già Bonvesin da Riva nel suo trecentesco Vulgare de Passione Sancti Iob traduce ventus vehemens con un vent de sansanco.
Nonostante la potenza, il vento sfugge ad ogni senso e quello che ha lo prende a prestito, toccando o sferzando le guance, ululando, fischiando e sibilando tra le foglie, portando la gentile fragranza dei fiori in primavera, l’accecante sabbia rossa del deserto sui vetri. Impossibile descriverlo, a meno che non si sia un poeta.
SCORRENDO MUTO e invisibile, «viene il vento recando il suon dell’ora» (Giacomo Leopardi, Le ricordanze, 1829), «E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / e la morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei» (L’infinito, 1819).
Impossibile descrivere il vento, a meno che non si sia un artista. Aby Warburg riconobbe il «gesto vivo» dell’antichità nella raffigurazione dei particolari della Nascita di Venere di Botticelli (1485): «i capelli sciolti e serpentini, una veste gonfiata dal vento, un tremito dell’aria» (Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, 2005).
È una «brise imaginaire» che accarezza le opere di quella schiera di pittori che raffigurano una vera e propria meteorologia dell’anima con il Romanticismo: John Constable e Joseph Turner unirono la curiosità classificatoria e scientifica, tipicamente inglese di quegli anni, al desiderio di far parte delle forze che animano la natura, quasi a creare una religione naturale, «una genuflessione sotto i cieli» (Marco Goldin, Natura e paesaggio, 2007). E pittori come Corot, Coubert, Fattori, Millet, Vallotton e Van Gogh hanno descritto quei celesti fiumi che prendono forma in grovigli intricati di rami e chiome di alberi, tra spumose onde in subbuglio che dialogano con le bianche vele di agili tartane o con il solido albero maestro A bordo di una nave a vela di Caspar David Friedrich (1819).
COME OGNI COSA che cade sotto il mondo sublunare, il vento può assumere significati diversi, e la cultura popolare spesso vede nei venti qualcosa di malvagio. Tra Sannio e Irpinia, dove il vento picchia e «soffia pure se sta fermo», come scrive Franco Arminio (Vento forte tra Lacedonia e Candela, 2008), può diventare una presenza fisica, viva e attuale, soprattutto quando spira disordinatamente nella caotica forma di vortice. Sono rim’l e fruli, anime male perché morte violentemente e perciò condannate ad errare nell’atmosfera.
Per questo, per allontanare demoni, malattie e i mali portati dal vento, una lunga tradizione colta e popolare ha utilizzato una parola magica, «abracadabra». Dal suono esotico ma potente, questa formula è nata in ambito greco-bizantino per allontanare i venti maligni, àbrai. Proveniente dal greco classico aura, pronunciato avra in area greca e abra in latino, con questa parola si scongiuravano i vari venti secondo la loro provenienza, vento dopo vento, un’«abra dopo l’altra», abras kat’abras.
CON LA PERDITA del significato, divenne una formula che a solo sentirla ci fa volare negli universi lontani ed eterei della fantasia, dell’infanzia, della magia. Un mondo dove usiamo scongiuri e formule scolpiti nella fissità della memoria per allontanare le paure che viaggiano nel vento sotto forma di ninfe e spiriti, che in virtù delle loro tenui composizioni possono entrare e uscire dai caldi corpi degli umani, spargendo malattie, incubi, estasi e possessioni, nel senso sia erotico, sia diabolico.
«L’acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi / la chimica lebbra distrugge la vita», eppure il vento soffia ancora, con tutte le sue risposte, tra gli universi metamorfici umani, da Una discesa nel Maelström alla cima del ciclone di Dorothy tra le campagne del Kansas, in un vortice di ansie, sogni, granelli di polvere e galassie.

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