INTERNAZIONALE

Ricatto repubblicano a Biden. O tagli il welfare o è shutdown

Nessun accordo al Congresso sul bilancio. In gioco c’è la rielezione. E Trump se la gode
LUCA CELADAUSA

La crisi del debt ceiling incombe sugli Stati uniti e minaccia di tramutarsi in calamità per Joe Biden e le sue prospettive di rielezione. E potenzialmente di innescare una recessione dai riflessi globali.
NEGLI STATI UNITI il Congresso è tenuto a formalizzare ogni anno l’ammontare della spesa pubblica e autorizzare con un voto il debito necessario a pareggiare disavanzo in bilancio – il cosiddetto «tetto del debito». Non si tratta di una manovra finanziaria vera e propria, ma della autorizzazione consuntiva a coprire spese già sostenute mediante la contrazione di ulteriore debito, di solito l’emissione di buoni del tesoro. La procedura è rimasta un atto automatico per due secoli ma è diventata di recente oggetto di aspri contenziosi per come è stata politicizzata, in particolare dalla destra repubblicana.
Nel 2011 la Camera controllata dai repubblicani di era Tea Party impose all’allora presidente Obama di negoziare una riduzione alla spesa – principalmente welfare – prima di acconsentire al voto. La linea intransigente, in buona sostanza un ricatto, spinto dall’allora presidente conservatore della Camera, John Boehner, tenne ostaggio il paese prima che il Congresso, a poche ore dalla scadenza ultima, si accordasse su un’estensione temporanea in extremis. Non prima però che la Standard & Poor’s declassasse, per la prima volta della storia, il rating degli Stati uniti. La crisi provocò forte volatilità nei mercati e l’impennata dei tassi d’interesse, costando all’economia, secondo le stime, circa 20 miliardi di dollari in costo del credito.
Due anni dopo, nel 2013, il Gop ripeté la stessa manovra per posizionarsi politicamente come il partito della responsabilità fiscale e dello stato minimo. Stavolta, la condizione per autorizzare la spesa necessaria comprendeva la richiesta di abrogare la riforma sanitaria (Obamacare), che fu per anni ossessione del Gop.
IN QUELL’OCCASIONE la crisi obbligò uno shutdown, il blocco parziale delle operazioni dello stato con la serrata di 800mila impiegati federali.
L’attuale crisi ha seguito lo stesso copione con l’annuncio del leader repubblicano, Kevin McCarthy, che la Camera autorizzerà il sollevamento del tetto solo se Biden si impegnerà a forti riduzioni della spesa. Si tratterebbe di tagliare all’osso proprio quella di programmi cui sono legati i maggiori successi del primo biennio Biden ripresa, post covCid, aiuti alle famiglie, infrastruttura, conversione energetica, incentivi all’industria (come quella dei semiconduttori). Il presidente Biden, il cui governo sull’intervento statale neo keynesiano è imperniato, ha escluso categoricamente la possibilità di negoziare in base alla minaccia di sabotare l’economia.
DA PARTE SUA McCarthy è stato eletto a gennaio, dopo ben quindici soffertissime votazioni per l’iniziale opposizione della frangia di trumpisti intransigenti, verso cui è oggi in forte debito politico. Si profila dunque un muro contro muro che potrebbe portare alla ripetizione di uno shutdown. Spiega gli avvertimenti sempre più urgenti della ministra del tesoro, Janet Yellen, e della Fed sul pericolo posto dalla prospettiva di un default degli Stati uniti sulle proprie obbligazioni.
SE QUESTO dovesse accadere, alcuni economisti – per esempio Mark Zandi di Moody’s, intervistato dal Washington Post – parlano apertamente di tracollo del sistema finanziario e quindi dell’economia. Secondo Yellen, se non ci sarà un accordo questo potrebbe avvenire già il primo giugno quando, con il governo senza più facoltà di contrarre ulteriori debiti, anche il suo dicastero sarebbe costretto a cessare l’attività. Secondo alcune previsioni il crollo della borsa e la recessione che potrebbero seguire potrebbero costare otto milioni di posti di lavoro mentre schizzerebbero tassi di interesse su mutui e prestiti industriali. A completare il quadro apocalittico, frenata delle imprese, tracollo dei consumi e del mercato immobiliare, una contrazione economica stimata fino al 6%, uno scenario simile a quello 2008. E come quella recessione, la crisi avrebbe sicure ripercussioni sull’economia globale, a partire dai paesi che sono fortemente investiti negli Usa e nella divisa nazionale e che potrebbero per questo veder decimate le proprie riserve.
GLI INCENTIVI a trovare un accordo per evitare una tale ferita auto-inflitta, insomma, non mancherebbero, tanto più che gli Usa si giocherebbero un’ulteriore perdita di egemonia economica e monetaria in un momento di emergente ordine multipolare. D’altro canto è un dato di fatto l’ulteriore radicalizzazione della fazione MAGA del Gop che ha semmai ogni incentivo per innescare una crisi che danneggerebbe soprattutto l’avversario elettorale Biden. Donald Trump, intervistato dalla Cnn, ha dichiarato che forse «vale la pena» affrontare adesso un default, piuttosto che generare deficit sempre maggiori (va notato che uno dei principali fattori di disavanzo rimangono i profondi tagli fiscali istituiti proprio dall’amministrazione Trump a favore di industria e ceti privilegiati).
Dopo aver inizialmente escluso per principio ogni trattativa di tipo «ricattatorio», Biden ha aperto a un possibile compromesso. La disponibilità sembra però averlo messo in una posizione di debolezza, rafforzando la mano della destra e suscitando la forte preoccupazione della corrente liberal del partito democratico che, dopo aver assistito ai recenti salvataggi federali di banche fallite, teme una possibile capitolazione, ad esempio, sull’obbligo di lavoro per accedere a sussidi ed alimenti statali. «Non posso sostenere accordi che mirino a colpire i lavoratori – ha dichiarato la senatrice progressista Elizabeth Warren – Se i repubblicani tengono veramente a bilanciare le spese, allora pensiamo a tassare chi se lo può permettere».

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