CULTURA

Il memoir della città plurale. E perduta

Intervista a Denise Pardo, autrice di «La casa sul Nilo», per Neri Pozza
GUIDO CALDIRONegitto/italia

«Il Cairo era una città immensa, polverosa, illuminata da un sole instancabile, dove anche nei quartieri alti il lusso non riusciva a addomesticare il rumore, la sensazione di essere al centro di un turbine di energia la cui fonte non era controllabile. I minareti reclamavano la preghiera e i muezzin, che noi adoravamo per il suono fatato e melodioso rispetto al battito della città, fendevano l’aria. Riuscivano a infilarsi e a irrompere tra le musiche occidentali dei pomeriggi danzanti dell’Auberge des Pyramides senza per questo disturbarne l’armonia ma trovando la strada e il modo perché si potessero sentire e seguire le due voci, i due percorsi, i due sentimenti. L’essenza del Cairo di allora».
Ad ogni pagina di La casa sul Nilo (Neri Pozza, pp. 286, euro 18), lo struggente memoir che Denise Pardo ha dedicato alla storia della sua famiglia e ai primi anni della sua infanzia trascorsi al Cairo, si ha l’impressione che una folla composita si inviti con dolcezza in un ambito privato e intimo, abitualmente riservato ai propri cari. I ricordi personali, i sentimenti e i legami sui quali l’autrice ha scelto di tornare a tanti anni di distanza da quelle vicende, si intrecciano con una sorta di epopea, quella dell’ambiente cosmopolita che nei primi decenni del Novecento aveva fatto della capitale egiziana un luogo di incontro, scambio e relazione tra culture, fedi, modi di vivere e di pensare differenti. La stessa famiglia di Pardo, da un lato ebrei sefarditi e dall’altra provenienti dall’Europa orientale, che in quella città si erano incontrati, racconta di quanto il Cairo fosse, come si direbbe oggi, una sorta di metropoli-mondo dell’epoca. Una realtà temuta e avversata nell’Egitto della seconda metà degli anni Cinquanta guidato Gamal Abd el Nasser, dove il nazionalismo, e a tratti l’antisemitismo, avrebbero finito per offuscare il sogno di un socialismo arabo tollerante e democratico. Così, nel 1961 l’autrice e i suoi famigliari sarebbero stati costretti a lasciare l’Egitto alla volta di Roma. Quel tempo affascinante e tollerante, che ora rivive in questo libro, si stava chiudendo per sempre.
Denise Pardo presenterà La casa sul Nilo al Salone del libro di Torino accanto ad Alain Elkann e Mariolina Sattanino giovedì 18 alle 15 in Sala Magenta.
«La casa sul Nilo» non è solo uno straordinario memoir, ma racconta anche di un’epoca e un luogo dove l’idea stessa di diversità sembrava assente: nel Cairo che descrive, culture, fedi e origini si intrecciano l’una all’altra, si direbbe come parte di un unico insieme. Cosa significava concretamente crescere in un simile contesto?
Voleva dire crescere con la convinzione che la diversità era ricchezza, che religioni, anime e culture anche agli opposti sapevano trovare una via d’incontro e di pacificazione. È stata una sensazione talmente forte che ha così segnato la mia infanzia da provocare un trauma quando la realtà della mia vita è cambiata e siamo arrivati a Roma. Allora l’Italia era un Paese chiuso in se stesso e persino il mio nome era considerato strano, tutto quello che rappresentavo veniva guardato con sospetto. Il contrario del Cairo. A Roma la diversità era disagio, diffidenza anche bonaria a volte, ma comunque poco accogliente. Forse non era proprio così, ma era questa la mia percezione.
Quali il ricordo o la sensazione più forte che trae guardando indietro, come ha fatto per scrivere il libro, ai suoi anni al Cairo e più in generale alle vicende conosciute dalla sua famiglia in quella città?
In realtà il libro e la storia della mia famiglia hanno preso il sopravvento rispetto a quello che volevo scrivere. Da tanti anni m’interessava raccontare che un tempo era esistito un modello d’integrazione riuscita dove persino la tolleranza era sgradita perché portava in sé una connotazione di sufficienza. Non si doveva tollerare ma solo rispettare. Credo sia questo il senso più forte di quell’epoca, il senso più forte dei rari racconti dei miei genitori e di mia nonna, tutti provenienti da storie diverse. Mio padre dall’Italia, il Dna spruzzato di sangue turco, mia madre figlia di un russo di Odessa naturalizzato francese, mia nonna arrivata dall’Europa Orientale: tutti si sono sentiti tutti a casa al Cairo.
La città cosmopolita nella quale è nata sembra essere la vera protagonista della storia che racconta. Ma per ogni figura e vicenda narrate c’è un «prima», vale a dire il percorso che ciascuno a compiuto per giungere lì, a partire dalla famiglia di sua madre sfuggita alle persecuzioni antisemite in Europa orientale. Quale spazio c’era per il racconto di queste traiettorie di vita, se ne percepiva il peso nella realtà quotidiana del Cairo?
Certamente, era anche questa la forza dell’identità mescolata, qualcosa che si assaporava tutti i giorni. Nel linguaggio, non si parlava una sola lingua al Cairo, ma un insieme di lingue. Nella cultura, i libri francesi e inglesi, le poesie greche, il cinema egiziano e americano. Nel cibo, italiano, francese, mediorientale, a casa si mangiavano spaghetti, foul, la minestra di fave piatto nazionale egiziano, e come dessert i pudding e i dolci viennesi fatti dalla nonna. Erano segnali di quello che la mia famiglia, come innumerevoli altre famiglie, avevano portato con sé, eredità di storie dolorose che non hanno mai dimenticato. Eppure anche allora, ancora una volta, non hanno riconosciuto i segnali di pericolo che arrivavano.
Per lei questa è una storia molto dolorosa. Cosa significa per una bambina sentirsi fuori luogo, percepire che quello dove è nata potrebbe non essere il suo Paese?
È un segno che non si riesce a cancellare nemmeno con l’eta adulta, la razionalità, la psicanalisi.
Ripercorrendo le vicende che hanno portato alla fuga degli stranieri dopo l’arrivo al potere di Nasser, lei sottolinea come in molti, compreso suo padre, non abbiano creduto fino all’ultimo che sarebbero stati costretti ad andarsene, ritenendo invece che nel «nuovo Egitto» avrebbero trovato il loro posto, magari rinunciando a qualche privilegio. I segnali di ciò che stava per avvenire non erano evidenti?
Non erano solo evidenti, a un certo punto erano perfino nitidi, ma l’animo umano sembra non registrare le lezioni del passato. Dopo ci si domanda com’è stato possibile non capire, non prevedere, non immaginare. Sono reazioni ancora oggi molto attuali rispetto a ciò che sta succedendo non tanto lontano dall’Italia.
Negli ultimi anni quella stagione della vita dell’Egitto è stata al centro di molte opere letterarie, dal romanzo di André Aciman dedicato alla fuga della sua famiglia da Alessandria, ai molti che soprattutto Ala al-Aswani ha ambientato al Cairo raccontando anche il volto della città della prima metà del Novecento. Ha l’impressione che il mondo perduto di cui è stata testimone possa in qualche modo tornare attraverso la letteratura e fino a che punto è anche questo sentimento ad averla spinta a scrivere il libro?
Al-Aswani ha descritto mirabilmente il Cairo. E Ultima notte a Alessandria di André Aciman è uno dei miei libri preferiti. Aciman ha letto La casa sul Nilo e con mio enorme piacere ha avuto parole molto lusinghiere. È stato proprio il desiderio di far conoscere un luogo dove libertà e rispetto dei diversi avevano trovato il loro posto a spingermi a mettere a nudo le mie radici, la mia storia familiare che avevo raccontato solo a pochissime persone: come è stato per i miei genitori anche per me parlarne, ancora oggi, non è semplice. Mia madre definiva l’atmosfera del Cairo una «magica alchimia», qualcosa che si è rivelato poi inimitabile. I mondi perduti si ritrovano raramente ma raccontarli e far sapere che sono esistiti sono l’unico modo per tenere viva la speranza.

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