VISIONI

Wadada Leo Smith per Angelica, festa col gusto del rischio

Il trombettista statunitense in Italia dopo diversi anni,la rassegna di Bologna gli ha affidato un’intera sezione
MARCELLO LORRAIITALIA/bologna

Quando nella seconda metà degli anni Settanta apparve per le prime volte in Italia, era giusto una decina d’anni che Leo Smith era entrato in contatto con la Aacm, la cruciale Associazione per la promozione dei musicisti creativi di Chicago, e che, dopo breve tempo (1968), aveva partecipato all’incisione di uno degli album fondanti dell’estetica post-free della scuola chicagoana, 3 compositions of new jazz di Anthony Braxton: ma in quella decina d’anni il trombettista si era già conquistato quello status di icona dell’improvvisazione che lo fece attendere con ansia dagli appassionati a Pisa e a Firenze.
Da quei primi incontri col pubblico italiano è passato quasi un altro mezzo secolo, che Leo Smith ha attraversato con autorevolezza, senza cedere alla convenzionalità, senza adagiarsi nelle formule, mantenendo il gusto della ricerca e del rischio; già dalla fine del secolo scorso, poi, anche il rarefarsi sulla scena del jazz delle grandi figure storiche ha contribuito a fare di lui un emblema. Così le due serate che il festival di Angelica gli ha riservato al Teatro San Leonardo nella prima settimana della sua trentatreesima edizione sono state un evento – sold out – che ha richiamato un pubblico arrivato appositamente anche da lontano, motivato, attento: Wadada – il nome che ha adottato decenni fa – mancava dall’Italia da diversi anni, e quelle per Angelica sono state le sue prime e al momento uniche date in Europa dopo il Covid.
WADADA Leo Smith, 81 anni compiuti nel dicembre scorso, vuole muoversi ormai dagli Stati uniti solo per occasioni speciali, e perché torni bisognerà aspettare novembre, quando si esibirà al festival portoghese di Guimaraes, che lo corteggia da diversi anni: Angelica, dove si era già esibito in passato, gli ha intelligentemente dato la possibilità di presentare una sorta di suo festival nel festival, il «Create Festival», mettendogli a disposizione anche Istantanea, un quartetto d’archi bolognese specializzato in musica contemporanea.
Anche in questa sua pienissima maturità Leo Smith continua a cercare di offrire delle novità, e rispetto a quello che di suo nei decenni si è potuto ascoltare dal vivo su questa sponda dell’Atlantico, il modo con cui la musica presentata ad Angelica era organizzata e la sua forma rappresentavano qualcosa di significativamente inedito. Con Sylvie Courvoisier al piano, Erika Dohl al piano e elettronica, Ashley Walters al violoncello, Skuli Sverrisson al basso elettrico, Pheeroan AkLaff e Frank Morrison alle batterie, e, come guest, il nipote Lamar Smith alla chitarra elettrica, il suo gruppo Purple Kikuyu non suona quasi mai tutto assieme, né a briglia sciolta: alcuni passaggi dei brani sono stati provati meticolosamente, ma il grosso è costituito da canovacci che vengono interpretati con abbondanza di indicazioni date gestualmente da Smith sul momento – per esempio indicando a uno o entrambi i batteristi di entrare e con un certo tipo di drumming, o di tacere – in una specie di conduction: a parte le soluzioni estemporanee – se vogliamo di composizione istantanea – adottate da Smith nella sua direzione, l’elemento di improvvisazione si limita sostanzialmente ai suoi soli e agli spazi solistici affidati ai musicisti, senza che si dia mai un vero e proprio interplay di gruppo.
All’interno di brani piuttosto estesi, quella che si crea è una successione e un alternarsi di diverse situazioni, non senza una forte presenza di stilemi e atmosfere che richiamano la musica classica o classico-contemporanea: tuttavia non si tratta di cedimento o complesso di inferiorità rispetto ad un altro universo estetico, ma della vecchia filosofia della Aacm, che prevedeva la possibilità di utilizzare materiali e suggestioni di matrice non afroamericana, ma utilizzandole secondo propri criteri, mantenendo la propria autonomia.
FIN DALLE SUE PRIME prove, Leo Smith è stato un maestro, anche nei suoi pionieristici soli di mezzo secolo fa, dell’uso del silenzio, delle pause, della capacità di dare spazio alla musica, e questa sensibilità la si ritrova nei favolosi, tanto per cominciare, primi 40 minuti della prima serata, una suite di due brani: straordinaria, con il sapiente uso di stop e del gioco a geometria variabile sull’organico, l’abilità nel determinare un senso di suspense, di attesa, nel tenere l’ascoltatore col fiato sospeso. Luminoso il sound di Leo Smith, ricca la tavolozza degli effetti e dei registri espressivi, forte la definizione dei suoi interventi. Due ore di musica in ciascuna serata. Tutti di valore i musicisti, con una menzione speciale per il suono e il ruolo di amalgama del violoncello. Per i due brani in programma col quartetto d’archi, reciproca soddisfazione fra Istantanea e Wadada.

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