VISIONI

La vitalità del margine, «piccole lingue» al Bolzano Film Festival

Si è chiusa la 36a edizione, dai territori del centro-Europa alle minoranze nel mondo, l’omaggio al cinema galiziano
GIUSEPPE GARIAZZOITALIA/Bolzano

Non poteva che nascere a Bolzano - trentasei anni fa, e quest’anno, con la nuova direzione di Vincenzo Bugno, reinventarsi, ampliarsi, contaminarsi oltre le aree geografiche centro-europee di lingua tedesca, aprirsi alla moltitudine delle numerose «piccole lingue» dell’Europa e degli altri continenti - un festival inscritto nel «conflitto» territoriale, culturale, linguistico, abitato da maggioranze e minoranze di cui la città altoatesina è corpo che quel «conflitto» lo esprime in ogni suo anfratto, città a maggioranza italiana ma dove a dominare è il tedesco, parlato ovunque e che ha segnato anche la serata di inaugurazione al Filmclub Capitol. Ovvero, l’unico cinema rimasto aperto nel centro cittadino e sede, nelle sue tre sale, di tutte le proiezioni della trentaseiesima edizione del Bolzano Film Festival Bozen terminato domenica scorsa, oltre che luogo quotidiano d’incontri con caffetteria e ristorante inglobati nella struttura. Sei giorni di film, masterclass, concerti, tavole rotonde per scoprire lo stato delle cose, tra attualità e percorsi retrospettivi, di un fare cinema solo geograficamente e linguisticamente marginale, invece potente nella pluralità di sguardi che offre. Così, le sezioni del festival hanno dialogato fra loro e generato ulteriori contaminazioni e punti di vista, a partire dalla scelta di costruire un concorso senza distinzioni tra film di finzione e documentari, superando anche la rigidità, pur consolidata in tanti festival medio-piccoli, dell’anteprima italiana a tutti i costi, permettendo in tal modo a opere recenti importanti e magari già presentate in altri luoghi o uscite in sala di proporsi a un nuovo pubblico. E di ricevere i riconoscimenti principali: miglior film Gigi la legge di Alessandro Comodin, premio per la migliore prestazione artistica Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel.
I DODICI TITOLI del concorso hanno portato in primo piano ambienti inediti, a volte concentrandosi su un unico posto a volte compiendo un viaggio attraverso i continenti. Si pensi, nel primo caso, a Gorgona che Antonio Tibaldi, cineasta italiano da lungo tempo basato a New York, ha girato nell’isola-prigione situata a diciannove miglia dalla costa della Toscana e nota per essere l’ultima colonia penale agricola in Europa. Unica residente effettiva, l’anziana Luisa Citti, discendente di una delle sette famiglie che popolarono l’isola nell’Ottocento. Tra l’arrivo e la partenza su un motoscafo della polizia penitenziaria, iniziando e terminando sott’acqua, a indicare l’esclusività e l’isolamento del luogo, ancora maggiore in caso di mare grosso che rende l’isola praticamente irraggiungibile dalla terraferma, Gorgona è la descrizione/osservazione tanto di una struttura detentiva non convenzionale quanto degli altri spazi dell’isola (le strade, il cimitero, la vegetazione aspra) per far conoscere, mettendosi in ascolto, uno spicchio d’Italia chiuso alle normali frequentazioni.
Aperta invece agli incontri resi possibili dagli spostamenti, da un viaggio che si compie dall’Argentina all’Europa, è l’opera prima degli argentini Leandro Koch e Paloma Schachmann Adentro mío estoy bailando (titolo internazionale The Klezmer Project) che, usando uno stratagemma finzionale (divertente e teorico, in cui Koch e Schachmann si mettono in gioco come personaggi) e una voce off narrante una storia di amore e conflitti ambientata nel passato ma dialogante col presente, si pone la «missione» di documentare la musica popolare tradizionale yiddish in un film a tappe che lascia la parola a testimoni e musicisti, produce effetti stranianti in scene di umorismo surreale, esprime il suo intento didattico di dare voce a una cultura e una lingua a rischio di sparizione.
ELEMENTO, quello della sparizione e della preservazione, che è stato il filo rosso del festival. Ri-emerso nella sezione «Piccole lingue DOC» (da segnalare Yonaguni di Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti, ritratto per quadri statici/in movimento di un’isola giapponese non distante da Taiwan e dei suoi abitanti, solo un centinaio dei quali parla ancora la lingua locale dunan, reso da due registi europei con sensibilità filmica nipponica) e nel magnifico omaggio al nuovo cinema galiziano (allargando con esso ancora di più l’esplorazione geografica nel focalizzarsi non su un paese ma su una regione specifica). Quello nato in Galizia, all’estremo Nord-Ovest spagnolo, affacciata sull’Atlantico e confinante a Sud con il Portogallo, nella prima decade del nuovo secolo e che ha dato origine a un’onda di autori e film presentati ai più importanti festival internazionali (sei quelli scelti da Bolzano firmati tra il 2017 e il 2021 da Diana Toucedo, Xacio Baño, Oliver Laxe, Eloy Enciso, Lois Patiño, Helena Girón e Samuel M. Delgado) è un cinema apertamente sperimentale, sradicato da logiche narrative convenzionali, radicato nel territorio montuoso e rurale, sulfureo e visionario, misterioso e ellittico, affine per espressione poetica e intensità formale a quello portoghese, libero da gabbie diegetiche pre-confezionate, che invita a perdersi e ri-trovarsi dentro quei labirinti naturali così magistralmente descritti, che non prende per mano lo spettatore bensì lo invita a attivare i sensi.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it