«Il popolo sudanese in questa guerra di generali non è previsto». Lo sconforto di Suliman Ahmed, che in tante vite collezionate ne ha archiviata anche una da rifugiato politico in Italia tra il 2004 e il 2010, arriva forte da Khartoum anche nella totale instabilità della connessione, nuovamente collassata nella giornata di ieri.
Senza più cibo né acqua, con l’elettricità a singhiozzo, presi nel mezzo dei combattimenti e costretti a scavare a mani nude sotto le macerie delle abitazioni in cerca dei superstiti, come è successo ieri pomeriggio a Kalakla, un sobborgo meridionale di Khartoum, dopo un raid dell’aviazione di Al Burhan che cerca di in tutti i modi di stanare gli uomini di Hemeti. Nel totale disprezzo delle due fazioni in lotta per il potere e delle istituzioni internazionali che chiudono i battenti.
Gli abitanti di Khartoum nel caso non si fosse capito sono allo stremo. Ora che la maggior parte degli stranieri ha lasciato il paese con il sollievo di governi e famiglie - IIeri è toccato al resto del mondo, nigeriani e sudafricani, algerini, indiani e indonesiani, indirizzati dai rispettivi governi perlopiù verso Port Sudan, in vista di una via di fuga marittima -, la situazione di chi resta in città si fa al contrario disperata.
Suliman vive non distante dall’aeroporto, dove ieri mattina siera ripreso a combattere aspramente. «Da 10 giorni - racconta - viviamo chiusi in casa con altri due nuclei famigliari che hanno lasciato zone divenute troppo pericolose. In tutto ora siamo 15 adulti, 6 bambini e due amici di mio figlio costretti a fuggire dallo studentato in cui vivevano, sono arrivati qui sanguinanti dopo uno scontro avuto sulla strada con un gruppo di janjaweed (le milizie... )».
Come dire, la cosa migliore in questo momento a Khartoum è stare in famiglia, anche se non è la tua. «Condividiamo la paura e il nostro "piccolo mangiare" - prosegue Suliman - ma le scorte stanno finendo. Da giorni hanno chiuso anche gli ultimi mercatini di quartiere vitali per le famiglie. Nel frattempo è stato bombardato anche il grande mercato generale di Bahari (la terza "capitale" dopo Khartoum e Omdurman, alla confluenza tra Nilo Azzurro e Bianco, ndr), dove si riforniscono i commercianti all’ingrosso…».
Le operazioni che hanno consentito a tanti stranieri di lasciare il Sudan hanno avuto sulla vita quotidiana degli abitanti di Khartoum anche un riflesso positivo, moderato e assai momentaneo: per poche ore in città è sembrato di vivere qualcosa che somigliava a una tregua, la prima dall’inizio della cris. «Per un po’ miracolosamente le armi hanno taciuto - dice Suliman - ma uscire era ancora pericoloso: oltre agli scontri armati nelle strade c’è un clima di impunità che aumenta le probabilità che già c’erano prima di essere aggredito a scopo di rapina». Oltretutto la cittadinanza non aveva le stesse informazioni fornite alle cancellerie occidentali per il buon esito dell’evacuazione. E così «siamo rimasti chiusi in casa».
Ieri mattina erano già ripresi gli scontri e gli scambi di artiglieria intorno all’aeroporto, e di nuovo movimenti di truppe e armamenti e armi pesanti sotto le finestre di Suliman, dove troneggiano i resti di «un tank delle Rsf centrato da un razzo nei giorni scorsi».
TRA I VIDEO CIRCOLATI nel lockdown di guerra dei sudanesi quelle di un uomo di Nyala, la città del Darfur meridionale di cui è originario Suliman e che in questi giorni non è stata risparmiata dalla guerra, con corollario di saccheggi e vendette che hanno riportato indietro le lancette di parecchi anni. Vestito di bianco immacolato si aggira tra i resti fumanti della sua(ex) attività nel mercato locale, maledicendo i due contendenti. In questo momento ai sudanesi non resta molto altro da fare.