CULTURA

Dentro una solitudine indomita

«Una lotta impari», a proposito del primo romanzo di Simona Nuvolari pubblicato da Rizzoli
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA

«Chiusa in bagno, si strofinava la mano con l’alcol, di nascosto perché non la vedesse nessuno, soprattutto i suoi figli, sentendosi una lebbrosa per quel bisogno insaziabile di lavarsi senza mai sentirsi pulita». Questo è il problema, o meglio il tema della vita di Marta, protagonista del romanzo di Simona Nuvolari Una lotta impari (Rizzoli, pp. 503, euro 20). La sua lotta è contro «uno sporco invincibile» che la costringe a «meticolosi rituali igienici» e ad altrettanto meticolosi accorgimenti per dissimularli o giustificarli agli occhi della famiglia, e per non farli percepire ai colleghi di lavoro, agli amici, ai contatti della quotidianità.
DI QUI LA VITA AFFANNATA di Marta, che mentre tenta di controllare lo sporco se ne trova invasa, dominata: i sacchi di indumenti, differenziati «secondo criteri di incomunicabilità dello sporco», si moltiplicano «in maniera assolutamente sorprendente» sebbene Marta arrivi a fare anche tre o quattro lavatrici al giorno; lo studio, i divani, la vasca da bagno sono occupati da buste e valigie in attesa di smistamento tra lavatrici, lavasecco, spazzatura e destinazioni da definire; la pelle delle mani è torturata da saponi, alcol, disinfettanti, guanti di lattice anche in due tre paia alla volta. Ci sono poi gli imprevisti: il duello con uno scarafaggio («svoltando nel corridoio lo vide, e non riuscì a trattenere un grido strozzato. Anche lo scarafaggio l’aveva vista»), i giovani africani che le stringono la mano prima che lei riesca a sottrarsi («ho stretto la mano a due sconosciuti!»), «la grande mano del figlio Teo, sporca di imprecisate sostanze, che arraffa veloce la pezza dei piatti nuova di zecca posata sul lavello», la domestica Palmira che normalmente rispetta le prescrizioni ma un giorno, rientrata di corsa per aver dimenticato qualcosa in frigo, manda nel panico Marta quando tocca la maniglia con la stessa mano che ha aperto il cassonetto e non è stata preventivamente lavata.
PER TUTTO IL PRIMO CAPITOLO, di grande originalità e impatto, Nuvolari ci addentra nella vita di Marta con la stessa cura meticolosa che lei applica contro lo sporco. Il racconto sarebbe insostenibile se non fosse temperato da un’ironia che a volte diventa comicità e tenerezza, e contribuisce a suscitare in chi legge, insieme all’angoscia, simpatia e identificazione con questa donna nevrotica e indomita, che non recede che per sfinimento dai compiti che si è data come necessari, e che scatenano però, in molti momenti, scontri perdenti e feroci con i due figli: «tutti gli svantaggi della pazzia senza i vantaggi… neanche quello di essere temuta… sono come quei draghi cinesi di porcellana che più strabuzzano gli occhi meno ti fanno spavento».
Con parecchi dubbi sulla sua lotta, qualche curiosità e poca convinzione, Marta avvia alcuni tentativi di terapia, preceduti e scanditi dalla lettura diffidente di libri di psicologia, psichiatria, psicoterapie. La prima secca diagnosi è di un costoso psichiatra: «lei ha un tipico disturbo ossessivo compulsivo, un doc, come diciamo noi», e la proposta è il Prozac, la «pillola della felicità», secondo il noto slogan. Ma con Marta funziona male, lei lo lascia mentre sente però di «scivolare come su un piano inclinato», fino all’incontro con un medico che sembra più vicino al suo desiderio di «capire quello che è successo, come è stato possibile».
Marta non seguirà il consiglio di «lasciare il lavoro che le pesa e di riprendere a fare quello che amava», cioè la ricerca e la scrittura. Forse intraprenderà un percorso psicoterapeutico ma questo Nuvolari non lo dice chiaramente. Racconta piuttosto quanto e come Marta lavora per riprendere in mano sé stessa, come ricostruisce, con diari, lettere, brutte copie di racconti non terminati, «i primi segni di ossessività nascente», il suo minuzioso ragionarci, i pochi anni di «normalità», cioè «di immunità dagli scrupoli di qualche genere» («ma come ho fatto allora, senza farmaci e senza psicoanalisi, a tirarmene fuori?») e infine il ritorno delle «stranezze», che ha «l’andamento di una frana».
QUESTO SUO CERCARSI è affannato, necessitato, smisurato, quasi sempre nascosto, come la sua lotta contro lo sporco: può chiudersi in macchina di sera per leggere in santa pace il quaderno in cui potrebbe esserci un elemento, uno snodo che poi però ne aprirà altri a catena, mentre i fatti e i pensieri di lei ragazza degli anni ’60 – il corpo, la ricerca di Dio, il sesso, la letteratura, la politica, la chiesa, sua madre, la morte del padre, quasi un romanzo nel romanzo- si intrecciano con la sua vita di oggi, che si connette con lo sporco, il disordine e la dismisura del mondo, in una ricerca che lievita man mano che avanza.
In questo cercarsi per così dire autarchico, Marta vive una grande solitudine, anche se lavora e ha una vita sociale relativamente ricca. Alcune volte con un paio di amiche e un amico prova a uscire cautamente da sé, più con discussioni che con confidenze. Il solo con cui a un certo punto gioca a carte scoperte è il marito Mauro, l’amore della sua vita. C’è un lungo dialogo tra i due molto bello, difficile e onesto, che sarebbe materia preziosa per chi lavora con la sofferenza mentale. «Per me la tua pazienza ha qualcosa di opaco», commenta verso la fine Marta, che in fondo ha chiesto a lui di essere il limite che lei non riesce a darsi; e Mauro poco dopo «le risponde con voce pacata, anzi blanda: no, io non ti vedevo come una che bisogna aiutare».
Poi, in una singolare coincidenza con la vicenda di Zeno Cosini, il primo grande nevrotico della letteratura italiana (Italo Svevo, La coscienza di Zeno,1923), anche nella vita di Marta irrompe un fatto nuovo, esterno, che cambia tutto.
ZENO viene «raggiunto dalla guerra» (del 1915), e «privato di tutto, della famiglia e dell’amministratore (…) da un giorno all’altro diventa un uomo nuovo», prende in mano la sua vita e «comincia a comprare». Marta viene raggiunta dal Covid, che nel 2020 irrompe nella sua vita come in quella di tutti noi, obbligandoci all’isolamento e alla «distanza sociale», alle mascherine, ai rituali igienici dei guanti e delle soluzioni che massacravano la pelle delle mani, mentre si discuteva sempre e ovunque del contagio in agguato con le sue conseguenze all’inizio terribili, e le notizie vere e false sul virus obbligavano a studi accaniti quanto impotenti.
Marta rimane sorpresa lei stessa dalle proprie reazioni. Scopre di poter parlare ed essere ascoltata su sporco, pulito, contagio, precauzioni, si scopre più esperta e tranquilla della maggior parte, e comincia a sentire «il sollievo straordinario di poter essere come tutti». «Il commercio mi ha guarito!», scrive Zeno nell’ultima pagina di diario. Marta non dice di essere guarita, però scrive sui mesi di Covid quello che sarà l’epilogo del romanzo a cui lavora da tempo e lo manda all’editore.
LA LETTERATURA in cui si racconta la propria sofferenza mentale sembra cresciuta molto in Italia negli ultimi anni, dopo la lunga pausa seguita a opere come Il male oscuro di Giuseppe Berto, uscito nel 1964, e Campo di concentrazione di Ottiero Ottieri del 1972. Sono usciti di recente romanzi importanti come L’uomo che trema di Andrea Pomella (Einaudi 2018), La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli (Mondadori 2018), Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino (Einaudi 2019). Una lotta impari è il primo romanzo di Simona Nuvolari, ed è più autobiografico di quanto lo è ogni opera letteraria. Per questo lei vuole restare anonima, per proteggere la sua vita e quella dei suoi, ma anche perché «scomparire nel racconto è il mio ideale letterario. Se ho scritto un romanzo per condividere un certo tipo di problemi, è perché mi sembra quello il modo migliore di parlarne. Ora mi interessa vedere cosa succederà del mio messaggio in bottiglia».

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