VISIONI

«Vincere in salita», Alberto Tomba e la memoria collettiva

Netflix e Rai uniscono le forze per un documentariosul grande sciatore, nelle sue imprese un’epoca
MAZZINO MONTINARIITALIA

Era il 1998 quando Alberto Tomba fece la sua ultima gara, uno slalom speciale a Crans-Montana in Svizzera. Ovviamente la vinse. Erano i titoli di coda necessari per chiudere una carriera leggendaria iniziata in Coppa del Mondo tredici anni prima a Madonna di Campiglio. È Netflix, con la co-produzione della Rai, a ripercorrere la carriera del più grande sciatore italiano insieme a Gustav Thoeni, con il più classico dei documentari, Alberto Tomba: vincere in salita.
Interviste, materiali di repertorio in abbondanza, musiche in sottofondo, rievocano un fenomeno generazionale, uno di quei campioni che segna un'epoca e la rende indimenticabile ben oltre i gesti e i risultati sportivi. E Tomba con la sua esuberanza, con quel modo di sciare potente, dinamico, tecnico e scorrevole, diventò a poco più di vent'anni l'idolo delle masse, anche di quelle che non erano affatto interessate allo sci.
BOLOGNESE e dunque eccentrico in un ambiente nel quale le Alpi dominano costantemente sugli Appennini, Tomba è stato una delle poche risposte a un paese che programmaticamente concede poco spazio agli esordienti. Le Olimpiadi di Calgary nel 1988 con le due medaglie d'oro in gigante e speciale erano, per certi versi, l'equivalente delle prodezze di Paolo Rossi e Antonio Cabrini ai Mondiali di calcio argentini di dieci anni prima. Un'ubriacatura di gioventù un po' sfacciata, senza timori, con immenso talento da esibire e quella necessaria disposizione ad allenarsi duramente per vincere senza fare troppi calcoli, a costo di perdere coppe e medaglie.
Il documentario si sofferma sulla parabola dell'«Ufo», dell'alieno che come capita in ogni sport prima o poi atterra e mostra qualcosa di inedito. E tra le tante interviste, alcune più scontate (Flavio Roda, Gustav Thoeni che tanto ebbero a che fare con le sorti di Tomba, Marc Girardelli, uno dei suoi avversari più forti, Deborah Compagnoni che vinse tanto in quella stessa epoca), non poteva mancare il cantore di quelle imprese. Perché a ogni eroe si deve affiancare il testimone. E in questo caso, il narratore per eccellenza fu Bruno Gattai, avvocato di professione. In quel decennio, il telecronista di Telemontecarlo (e sul finire della sua attività di Mediaset) associò il suo nome indelebilmente a quello di Tomba, più di ogni altro commentatore proveniente dalla Rai, persino di Alfredo Pigna, un monumento del giornalismo sportivo italiano. Gattai raccontava con competenza e passione, avvicinandosi e allontanandosi al momento giusto per non debordare in quella retorica provinciale che accompagna molti dei campioni italiani, costretti prima o poi a telefonare alla mamma per ricordare che alle spalle di un mito si erge sempre una famiglia. Il massimo livello del «nazional-popolare» lo si raggiunse a Sanremo, con l'interruzione del festival per guardare tutti insieme appassionatamente la seconda manche dello slalom speciale di Calgary, quello che, appunto, consegnò a Tomba la seconda medaglia d'oro olimpica in pochi giorni.
IN DEBITO di originalità, questo documentario ha comunque la virtù di riportare sullo schermo una figura sportiva senza tanti precedenti, mostrandone il lato spettacolare e quello meno visibile che sta dietro a ogni successo. «Io scendevo, vincevo, tutti erano contenti, però era anche la salita la parte difficile, era la preparazione che c'era dietro alle gare...quindi era più la salita che la discesa», così chiude Tomba che a soli trentadue anni decise di sottrarsi alle regole delCirco Bianco, per condurre la propria vita fatta in parte di tanti ricordi personali che hanno da subito formato una memoria collettiva.

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