VISIONI

La narrazione della Palestinain una «febbre mediterranea»

REGIA DI MAHA HAJ, PREMIO A CANNES 2022
LUIGI ABIUSIPALESTINA/GERMANIA,

L'energia della bugia, della finzione - le verità più recondite emanate dal falso, dall'artefatto; Nietzsche, poi Heidegger la chiamavano «poesia»: il finto, foss'anche barocco, l'evocazione di mondi, infraregni di fantasia – è il motore di Mediterranean Fever di Maha Haj, film palestinese in sala da oggi che però ha poco di palestinese, di quello che uno si aspetterebbe da un film palestinese, cioè storie di terre e libertà, di popoli invasi e resistenti di fronte al prepotente. O meglio, c'è tutto questo nel film di Haj (regista di rara intelligenza), ma - sulla via di Suleiman - dissimulato nell'artefatto (e per questo più incisivo che mai), integrato nel «falso» incesso della narrazione; il «vero» senso della tragedia, la tragedia collettiva, di cui le vicende individuali e «finte» dei personaggi sono il sintomo.
LA FINZIONE del teatro, si direbbe, stando alle inquadrature laconiche sulle posture umane, macchina fissa, sopratutto negli interni, che oscilla tra commedia nera e dramma; sguardo ironico, beffardo e orizzonte tragico. C'è una stretta connessione tra la forma di questo film e il suo assunto: la fissità della ripresa è perfettamente funzionale ora all'ironia ora al tragico che emerge nudo, crudo dalla solida cornice del quadro, dalle fredde pareti dell'ipercubo, del vano scabro che è l'immagine di Haj.
È la menzogna perpetrata da Waleed, il protagonista, di professione scrittore, «ma non chiamatelo bugiardo: è solo la sua immaginazione», diceva sua madre alle sorelle quand'erano bambini (così Jalal, il vicino di casa, potrebbe essere del tutto inventato dalla mente dello scrittore); lo stato allucinatorio e affabulatorio proprio del depresso (in preda a questa febbre mediterranea) che mentre sperimenta l'impossibilità della creazione si ritrova ad aver composto l'opera, il racconto o pièce teatrale che sia (con tanto di suggello cechoviano), cioè il film.
Tanto che alla fine non si capisce chi tra Haj e Waleed abbia scritto la storia di questa amicizia intrisa di umorismo (macabro eppure lieve: la morte è come esorcizzata in questo primo movimento, scherzo, sgravata del suo nero peso) ed esistenzialismo (con le fragilità emotive che inaspettatamente s'increspano sulla pelle di Jalal, appassionato di poesia araba classica, prima di scomparire) fino ad arrivare alla fine (nel primo dei due finali) a un lirismo trasparente, atmosferico, all'insegna di un canto struggente, funerario, che trama con la pioggia lasca sui conci murari e sul mare, sulla costa in cui muore una barca amorrata, in un tramonto livido.
È UNA MANCIATA di scorci che si offrono allo sguardo silenzioso dopo tanto parlare dei protagonisti; inquadrature percorse dal vento e dal canto. Terra e mare che cantano la scomparsa più triste, che si fonde ad altre innumerevoli morti su quella terra, e al tempo passato, svanito; eppure sembrano promettere qualcosa di presente, di fremente: se non la vita, forse il racconto, nuovo, che è da venire.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it