CULTURA

Amazon, la fabbrica del taylorismo 2.0

Intervista a Alessandro Delfanti , autore de «Il magazzino», per Codice edizioni
ROBERTO CICCARELLIITALIA/ROMA

Con Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon (Codice edizioni, pp. 245, euro 22) Alessandro Delfanti ha realizzato un’inchiesta importante che porta alla luce i rapporti sociali celati dietro il logo sorridente della mega-azienda di Jeff Bezos. Lo abbiamo incontrato in Italia, di ritorno da Toronto in Canada dove insegna all’università. Il libro sarà presentato oggi al Festival delle scienze di Roma.
Jeff Bezos ha descritto Amazon come «un insieme di servizi web che trasformano i magazzini in una gigantesca e sofisticata unità periferica». Cosa significa?
È una metafora informatica che spiega bene il funzionamento del suo sistema. I magazzini che sorgono nelle periferie metropolitane non sono l’unità organizzativa principale di Amazon. Alla base ci sono sistemi software che gestiscono gli ordini, i magazzini sono le periferiche e finalizzano gli ordini che arrivano dai consumatori online. Questi spazi enormi comunicano attraverso una rete globale interconnessa che distribuisce gli ordini in maniera flessibile a seconda delle richieste.
L’attività più redditizia di Amazon è Amazon Web Service. Di cosa si tratta?
Amazon fa tante cose: vendita online per conto terzi, ebook, Tv streaming, supermercati. Amazon Web Service è il suo cuore strategico. Vende connettività e potenza di calcolo. È la principale azienda mondiale che affitta i server su cui si basano i siti personali e quelli di aziende come Uber o Zoom.
Il libro si concentra sul magazzino. Lei sostiene che è la nuova fabbrica. Cosa significa?
Il magazzino è governato attraverso il controllo algoritmico, la sua tecnologia è al servizio di un dispotismo tutto umano. Ha anche molte altre similitudini con la fabbrica fordista, sia nel modo in cui è organizzato il lavoro, sia nell’altissima richiesta di manodopera, oltre che nel suo turnover. In più, com’è evidente in tutto il settore della logistica, anche in Amazon c’è la capacità di attrarre forza lavoro migrante. Le fabbriche del Nord in Italia attiravano lavoratori dal Sud del paese. Oggi arrivano dai Sud del mondo.
Per questo si parla di un taylorismo 2.0?
Sì, per evidenziare le differenze con il vecchio modello. Una su tutte: la tecnologia algoritmica è al servizio del just-in-time. Amazon declina questo modo di produzione nei termini di una promessa: consegnare qualsiasi merce in 24 ore a casa nostra. La tecnologia è usata per rendere flessibili i processi, mettere al lavoro le persone e soddisfare la domanda di immediatezza dei consumi su cui è basato l’e-commerce.
Nel libro Piacenza diventa una «città-mondo». Lei fa un’inchiesta sul mega-centro MXP5 di Castel San Giovanni. Perché è stato costruito qui?
Come piacentino di nascita trovo quella di «città-mondo» un’idea interessante e divertente. Nella storia è già accaduto che Piacenza assumesse un ruolo logistico importante. Oggi è al centro della rete logistica che connette il Nord Italia e l’Europa. Quello di Amazon è solo uno dei magazzini presenti sul territorio. Dinamiche simili si vedono nelle città portuali come Rotterdam o Oakland. O nella Peel Region nell’area metropolitana di Toronto in Canada.
Com’è cambiata la forza lavoro a Piacenza?
Come altrove, anche a Piacenza quello che era un lavoro prettamente bianco e maschile si è trasformato. Ora almeno la metà della forza lavoro è femminile e immigrata. Nella fase iniziale, dopo la crisi finanziaria del 2008, quando Amazon ha aperto a Piacenza, sono stati attirati i lavoratori del ceto medio precarizzato che hanno sofferto la crisi più di altri. Oggi Amazon ha esaurito la forza lavoro bianca locale e si basa sempre di più sulla forza lavoro migrante.
Perché lei sostiene che il sistema è fragile?
Come tutte le aziende capitalistiche anche Amazon è fondata sul lavoro vivo. Il capitale è sempre fragile sebbene si presenti come un potere assoluto. I lavoratori stanno cominciando a capire la sfida di questa azienda.
In quali modi?
Lo si è visto in Italia due anni fa quando c’è stato il primo sciopero che ha colpito l’intera filiera. Non solo i magazzini ma anche e soprattutto le consegne e le ditte che lavorano in subappalto e i call center.
Lei parla di una «Contro-logistica delle lotte organizzate in reti». Di cosa si tratta?
Lo sciopero in un singolo magazzino può essere aggirato da Amazon che redistribuisce gli ordini su altri magazzini all’interno di una stessa area. Le multinazionali agiscono oltre gli Stati nazionali. I sindacati hanno capito che devono organizzarsi di conseguenza. Non è facile in un’azienda come Amazon dove la sindacalizzazione è complicata, come si vede negli Stati Uniti. A Piacenza ci sono però stati risultati ed è stato sottoscritto un accordo integrativo su turni e straordinari.
Con ChatGpt sono tornati i miti dell’automazione totale e le apocalissi della sostituzione dei lavoratori con i robot. Si può dire che Amazon smentisce il pensiero magico della Silicon Valley?
Proprio così. Mentre altre forme di automazione funzionano meglio nel nascondere il lavoro umano, Amazon è assetata di forza lavoro, ha bisogno di migliaia di persone in ogni magazzino e deve facilitare il ricambio continuo della forza lavoro. Questa storia era nota già negli anni Sessanta alla Fiat quando Romano Alquati denunciava il mito dell’emancipazione tramite il lavoro in aziende ad alto tasso di innovazione tecnologica che ai tempi era la catena di montaggio. Ho analizzato migliaia di brevetti di Amazon. Molti parlano del magazzino del futuro in cui il lavoro vivo sarà comunque presente. Il loro obiettivo è gestire i lavoratori come robot, rendere più efficiente l’interazione con le macchine, prevenire i conflitti. Eliminare il lavoro umano è impossibile in questo sistema.
A cosa servono i conflitti nel capitalismo digitale?
Le lotte svelano il ruolo del lavoro vivo che il capitale cerca di nascondere. Smontano i miti della Silicon Valley, dimostrano che servono a rendere subalterna la forza lavoro e a giustificare la precarietà. Incrinano le nuove forme del dispotismo tecnologico. Il consenso per l’azienda può rapidamente mutarsi in conflitto. La forza lavoro è fondamentale perché altrimenti la macchina si ferma. Gli operaisti lo videro alla Fiat. Anche oggi, sotto le ceneri ci sono braci che ardono.

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