Arriva infine in tribunale il processo per diffamazione in cui la Dominion, società produttrice di terminali per il voto elettronico, chiede all’emittente conservatrice Fox News danni per 1.600 milioni di dollari. La Dominion ritiene la Fox colpevole di aver diffuso calunnie riguardo ai terminali forniti dall’azienda a molte circoscrizioni in vari stati americani nelle elezioni presidenziali del 2020. Nello specifico l’emittente ha ripetutamente affermato che i dispositivi erano stati programmati per modificare voti repubblicani in preferenze per Joe Biden.
Le accuse furono parte integrante della “Big Lie”, la Grande Bugia promossa da Donald Trump dopo aver perso le elezioni. Trump si è sempre rifiutato di riconoscere il verdetto delle urne, montando da subito una campagna (peraltro ampiamente annunciata nei mesi precedenti alle elezioni) incentrata sul falso complotto delle “elezioni rubate.”
COME PARTE dell’offensiva coordinata dalla squadra legale di Trump, una processione di portavoce ha inondato i media con accuse di ogni genere: “vasti brogli,” morti votanti, torpedoni di immigrati clandestini “importati” nottetempo per votare Biden, fantomatiche scatole di schede false e interferenze cinesi. Fra queste, la storia lanciata dallo stesso Trump sui terminali Dominion riprogrammati per “virare” automaticamente le schede repubblicane, è stata una delle tesi che più ha fatto imbestialire la base ultra-conservatrice, contribuendo a scagliare le orde del 6 gennaio all’assalto del Campidoglio.
Tutti eventi già ripercorsi durante il secondo processo di impeachment dell’ex presidente senza però riuscire ad inchiodare Trump alle sue responsabilità etiche. Ora però l’affare è al vaglio di una giuria che valuterà i fatti alla luce prosaica delle perdite contabili di un’azienda – più quantificabili del “danno morale” alla nazione.
A nessuno sfugge tuttavia la più ampia implicazione anche per la responsabilizzazione della “pseudo informazione” adottata come “business model”. La causa potrebbe mettere agli atti processuali il nesso causale fra lo tsunami di complottistica, negazionismo e distorsioni antiscientifiche amplificate dalla macchina propagandistica della Fox e la diffusione dei movimenti populisti reazionari che ne hanno beneficiato.
È una simbiosi su cui la Fox ha lucrato per decenni ma per cui potrebbe ora ricevere un conto assai salato. Qualche mese fa era quel conto era toccato al podcaster Alex Jones, condannato a risarcire 46 milioni di dollari alle famiglie dei bambini uccisi nella sparatoria alla scuola elementare di Sandy Hook. Per anni Jones aveva sostenuto che la loro morte fosse stata una “montatura” escogitata dalla “sinistra” per passare leggi anti-armi.
IL PRECEDENTE non depone bene per la Fox il cui caso è cominciato male, con la pubblicazione di messaggi fra gli “anchor” dell’emittente che privatamente deridevano le falsità di Trump e contemporaneamente le amplificavano in onda, invitando i portavoce della “Big Lie” come ospiti fissi dei loro talk show.
NORMALMENTE il “dolo diffamatorio” risulta assai difficile da provare per la legge americana, fortemente tarata a favore libertà d’espressione. Ma in questo caso gli sms citavano esplicitamente la necessità di perseguire la narrazione dei brogli in assenza di alcuna prova, per appagare gli spettatori (e proteggere i fatturati). Sarebbe così comprovato il requisito di “effettiva malafede” necessario a una condanna.
NELLE FASI pre-dibattimentali la squadra legale di Murdoch ha poi commesso alcuni clamorosi errori strategici, fra cui l’occultamento di prove e la tentata protezione di Rupert Murdoch affermando falsamente che il fondatore della Fox non ricoprisse alcun ruolo nella direzione della divisione news dell’emittente.
La Fox è quindi fortemente motivata ad evitare ulteriori umiliazioni e patteggiare, un accordo che potrebbe ancora avvenire in ogni momento. Già solo le fasi preliminari hanno comunque fortemente leso l’immagine Fox, da anni il megafono mediatico del partito repubblicano e di Trump la cui linea editoriale ha obliterato le distinzioni fra notizie e propaganda (alcuni dei giornalisti, come Sean Hannity, sono stati veri e propri consulenti della Casa bianca di Trump).
Una probabile condanna – o anche un accordo di risarcimento – segnalerebbe il possibile declino del modello post-news e dell’ascendente del novantaduenne magnate. Dopo l’affare Jones e il processo per falso in bilancio che ha costretto lo stesso Trump ad accomodarsi dietro al banco degli imputati, il processo Fox delinea anche il declino di una generazione di anziani patriarchi dell’infotainment. Un editoriale di Maureen Dowd sul New York Times ha sottolineato la dimensione shakesperiana della caduta del padre-padrone della Fox e i paralleli fin troppo scontati col magnate televisivo Logan Roy, che gli autori della serie tv Succession hanno plasmato proprio su Murdoch.
UNA NARRAZIONE cui fa eco, aggiungeremmo, anche la vicenda nostrana del Re Lear di Arcore. Ogni vicenda è destinata ad innescare lotte di successione per complicate eredità non solo aziendali. Per le famiglie, ma anche per le democrazie che per sopravvivere dovranno trovare il modo di allentare la presa dei sovrani assoluti dei media - e ora sempre di più dei social - sulla giugulare dell’informazione.