COMMENTO

Pd, la partita del nuovo corso comincia adesso

Dopo le nomine
ANTONIO FLORIDIAITALIA/ROMA

Dopo una faticosa trattativa, si sono definiti i nuovi assetti del gruppo dirigente che affiancherà Elly Schlein alla guida del Pd.
Appaiono fuorvianti quei commenti che leggono questa vicenda sotto il segno della sempiterna disputa tra il leader e i condizionamenti delle correnti. Era del tutto irrealistico pensare che la nuova segretaria, solo sulla base del consenso ricevuto, potesse praticare uno stile decisionista, della serie “non guardare in faccia nessuno”, e sottrarsi all’onere di una mediazione interna.
Fuori da ogni ipocrisia, bisogna comprendere come l’attuale logica correntizia sia l’unico modo con cui può funzionare questo Pd; è un dato strutturale, non dipende dalla buona o cattiva volontà di qualcuno. Solo un lungo lavoro di ricostruzione e riconversione potrà modificare la “costituzione formale” e poi quella “materiale” del partito. Lo stesso commissariamento del partito campano conferma una condizione di emergenza che, in quella regione, si protrae da tempo. E forse va ricordato un aspetto spesso sottovalutato del regime di governo del Pd: per votare il segretario nazionale non occorre essere iscritti, ma per eleggere gli organismi dirigenti locali (che poi decidono sulle candidature), i pacchetti delle tessere contano, eccome. Da qui l’importanza di una gestione trasparente delle iscrizioni. Sarà questo il duro lavoro che spetta ai commissari campani, ma è un problema che, prima o poi, si porrà in molte altre situazioni.
La partita vera comincia adesso. Vedremo se i nuovi assetti si riveleranno efficaci, e se si affermerà uno stile di lavoro diverso dal passato: ma da cosa lo si potrà misurare? La chiave per capire come potranno andare le cose va colta in una paroletta magica, che in queste settimane è stata sulla bocca di tutti nel Pd: il “pluralismo”. Concretamente? Diciamo che il vero pericolo, che rischia d di far impantanare la nuova leadership, va colto in una concezione statica e spartitoria del pluralismo interno, inteso come mera coesistenza degli spazi di potere.
Non sono pochi coloro a cui, in fondo, non dispiace un partito feudalizzato, che conceda a tutti una qualche porzione di visibilità. E’ evidente però che così il Pd non potrebbe sopravvivere: si ritornerebbe a quell’alternarsi paralizzante di afasia e cacofonia, che molto ha segnato la vita delle ultime due segreterie.
Altra sembra la via che Ellly Schlein potrebbe provare a percorrere: ossia, sfidare e mobilitare il partito sul piano delle idee e delle proposte. E’ qui che si dovrebbe manifestare la ricchezza delle famose, diverse sensibilità (quando sono davvero tali!) e il beneficio collettivo che potrebbe derivarne. La chiave sta nel ridare peso, spazio e respiro ad un vero confronto politico e culturale, legando strettamente la definizione della linea politica alle procedure democratiche con cui si assumono le decisioni. Si può riassumere tutto in una frase: il Pd si deve semplicemente riabituare ad una discussione politica intensa, diffusa, forte e seria. Sembra scontato, ma non lo è.
Il Pd ha un drammatico bisogno di chiarirsi le idee su tante, rilevantissime questioni. E’ singolare che molti chiedano ora alla segretaria, "a Elly", e a lei sola, qui e subito, di colmare un vuoto di anni o, in molti campi, rimediare ad errori gravi che si trascinano da molto tempo. Anche il percorso congressuale ha mostrato un congenito deficit di cultura politica, che rimanda ai guasti dell’idea originaria di un partito pensato come post-ideologico. Ma un partito può mai fare a meno di questa dimensione politico-culturale?
Facciamo un esempio: la nuova segreteria sta rimettendo al centro dell’agenda politica il tema della lotta alle disuguaglianze. Sacrosanto. Ma quale è il discorso politico che sorregge, giustifica e rafforza questa lotta? Un discorso politico, per essere tale, implica una cornice critica e interpretativa, un quadro teorico, una lettura e una ricognizione dei processi reali. Si può impostare una coerente lotta alle disuguaglianze, o una visione della politica fiscale, o il rilancio del Welfare universalistico, senza introdurre nel discorso una qualche visione critica del capitalismo contemporaneo, e senza denunciare apertamente l’insostenibilità economica, sociale e ambientale di questo modello di sviluppo capitalistico (chiamandolo per quello che è, con il suo nome)? E senza che, per questo, si debba avere il timore di essere accusati di abbandonare il “riformismo” (parola oramai vuota e inservibile)? Come contrastare altrimenti il senso comune forgiato nel corso degli anni di incontrastata egemonia culturale del pensiero neoliberista?
Ci sono ora due possibili passaggi, di fronte al gruppo dirigente di questo partito: uno a medio-lungo termine, l’altro più urgente. Da una parte, occorre impostare un lavoro che porti ad una modifica dello Statuto e ad un ripensamento dell’intero modello organizzativo e del nesso che lega partecipazione e decisione. Dall’altra parte, nell’immediato, si possono fare molte altre cose: ad esempio, perché non utilizzare un istituto pur previsto nello Statuto, e mai utilizzato, ossia la Conferenza programmatica annuale? Non l’ennesimo convegno-passerella, per favore!, ma un percorso strutturato, con documenti-base di discussione, voti e emendamenti nei circoli, elezione di delegati, ecc.
Un modo concreto, tra l’altro, per far sì che quanti vorrebbero dare una mano trovino una prima occasione per farlo davvero. L’elenco delle cose da discutere è lungo, basti solo pensare alla questione della guerra, della pace e del disarmo, o alla visione della costruzione europea. O, sul piano interno, a tutto il pacchetto delle politiche istituzionali, fino alla riforma elettorale.
Una cosa è certa: il nuovo Pd non può permettersi di deludere le attese che sono state alimentate, ma il nuovo gruppo dirigente dovrà essere valutato, innanzi tutto, sulla sua capacità di costruire un progetto collettivo. E non è poco.

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