VISIONI

Atsushi Funahashi, uno sguardo dal carcere

Maboroshi
MATTEO BOSCAROLGIAPPONE

La carriera come regista di Atsushi Funahashi si muove, nei due decenni in cui si è sviluppata fin dal suo primo lavoro, Echoes del 2000, dai documentari al film di finzione e spesso a cavallo fra questi due modi di fare cinema. Funahashi cattura l’attenzione del pubblico, anche internazionale, specialmente nel 2012 con Nuclear Nation e due anni dopo con il seguito Nuclear Nation 2, documentari con cui seguiva un gruppo di persone costrette a trasferirsi da Futaba, cittadina vicina a Fukushima, a Tokyo. Ma anche nei lavori realizzati in seguito il regista giapponese non abbandona quasi mai questo rapporto abrasivo con il reale e con la società del suo paese. Questo è particolarmente vero per Cold Bloom del 2012 e soprattutto per Company Retreat che Funahashi dirige nel 2019, un’opera di finzione che affronta il tema dell’abuso di potere e delle molestie sessuali sul posto di lavoro, universo quello delle grandi aziende giapponesi che, come la scuola, è spesso una cartina tornasole di ciò che succede nella società del Sol Levante.
Il suo ultimo lavoro, Kako no ou mono (The Burden of the Past) è stato proiettato all’ultima edizione dell’Osaka Asian Film Festival a fine marzo, rivelandosi uno dei migliori film presentati alla manifestazione. L’attenzione di Funahashi continua anche qui a focalizzarsi sugli aspetti meno discussi e coperti mediaticamente nell’arcipelago, in questo caso si tratta della difficile vita e del reinserimento nella società degli ex detenuti una volta fuori di prigione.
The Burden of the Past nasce originariamente con una serie di incontri ed interviste fatte dal regista stesso con alcune di queste persone che attraverso «Change», una rivista realizzata da volontari, hanno provato a trovare un’occupazione.

Il Giappone, ci dice il film nei suoi primi minuti, ha un tasso di recidiva di circa il 50%, la metà di chi esce di prigione cioè, ritorna a commettere reati. Sulla base di queste conversazioni, il regista, che qui ha curato anche fotografia, montaggio e sonoro, ha creato, con il fondamentale contributo degli attori, i vari personaggi e ognuno degli interpreti ha poi di fatto creato il suo copione e improvvisato. Se all’inizio i tentativi di aiutare gli ex detenuti sembrano andare nella giusta direzione, si tratta di trovare lavoro ma anche di riconquistare una serenità mentale attraverso terapie di gruppo e una piece teatrale da portare in scena come coronamento di questo percorso di reintegrazione, man mano che il lungometraggio procede tutto sembra collassare a sfaldarsi. Non solamente alcuni ricadono nei crimini per cui sono stati condannati, ma anche i vari membri che lavorano nella rivista finiscono per perdere spirito e la volontà di continuare.

Lo stile documentaristico, camera a mano, spesso traballante, si trasforma nella parte finale del film, quando gli ex-detenuti mettono in scena il loro psicodramma davanti ad un pubblico formato da curiosi e da chi abita nel vicinato. The Burden of the Past diventa qui qualcosa di diverso e di più potente dal film che è stato finora, un buon lavoro molto teso ma abbastanza prevedibile. Grazie al lavoro fatto dagli attori, sia quelli che interpretano gli ex-detenuti, sia quelli nella parte dei membri della rivista e del pubblico dello spettacolo teatrale, il film si evolve in una sorta di meta-piece teatrale che colpisce tanto per la messa in scena, a tratti ci si dimentica che siamo davanti a un lavoro di finzione, tanto per le conclusioni che problematizzano il lavoro fatto dalla rivista e dal film stesso, non offrendo cioè nessuna facile soluzione o presa di posizione che sia consolatoria in nessuna direzione.

matteo.boscarol@gmail.com

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