CULTURA

Una guerra mondiale in bilico tra due storie

Verso un altrove», di Anna Kohn per Armando editore
LUCIANA CASTELLINAeuropa/cina

Leggere questo libro di Anna Kohn dal titolo Verso un altrove, dai Carpazi al fiume Giallo a un porto amico (Armando Editore, pp. 276, euro 18), una memoria umana appassionante, mi ha fatto avvertire ancora una volta come, nonostante quanto creda, io sia in realtà rimasta profondamente eurocentrica. Per riflesso condizionato o per ignoranza, e nonostante gli sforzi compiuti per non esserlo. L’autrice racconta infatti una vicenda che dall’Europa conduce in Cina negli anni più terribili della nostra storia – 1938/1949 – che ho sempre ritenuto di conoscere benissimo e invece scopro che no, bene conosco solo quella del mio Occidente, in realtà il solo contesto che noi riusciamo a immaginare. Perché conoscere non è solo avere cognizione degli eventi accaduti attraverso le loro scadenze ufficiali e le loro immediate ripercussioni, di cui qualcosa sappiamo attraverso i libri, ma capire come sono stati vissuti dai loro protagonisti non ufficiali, dalla società nel suo complesso.
DI ANNA KOHN, medico e moglie di un medico per me prezioso e anche amico e compagno, Guido Valesini, militante del sessantottino famoso collettivo di medicina del Manifesto, sapevo solo che era cinese, una bellissima cinese. E invece da questo suo libro, in cui racconta la sua famiglia, scopro un’identità parecchio più complessa.
Si tratta di una storia che mette insieme due vicende diversissime, una tragica, come non può che essere quella di un ebreo ungherese, suo padre; e una che racconta invece una normale e benestante famiglia di intellettuali cinesi negli anni in cui il paese subisce una crudelissima occupazione giapponese, poi viene coinvolto, dopo Pearl Habour, nella seconda guerra mondiale e quasi contemporaneamente nella guerra civile fra il Komintang di Changaishek e la rivoluzione maoista; e anche nell’esperienza della terribile prima bomba atomica scoppiata a poca distanza. Questo il vissuto di sua madre Luan Jue Lien, medico anche lei, nell’università di Chengdu creata dai missionari protestanti anglosassoni che hanno convertito al cristianesimo lei come tutti i membri della sua famiglia.
È qui, nel 1939, che arriva il rifugiato medico ebreo ungherese, che diventerà suo padre. Un viaggio pieno di peripezie, iniziato niente di meno che a Genova quando l’editto fascista del ’38 espelle gli ebrei stranieri dall’Italia e lui riesce, grazie a un grande amico di Camogli (che già lo aveva aiutato a operare come dentista in quel magnifico posto quando Kolman Kohn era venuto a studiare in Italia) a imbarcarsi sul piroscafo Biancamano come medico di bordo. Sbarcato furtivamente a Hong Kong, aveva raggiunto Pechino via Canton, occupata dai giapponesi, poi l’Hunan (in mano al Komintang), quindi la zona alluvionata dell’Hubei (controllata dai comunisti).
DALLA CAPITALE deve comunque allontanarsi per raggiungere la sua meta - l’università di medicina dei missionari protestanti - e perciò transitare per il Borneo olandese, per il Brunei protettorato britannico, infine per il Vietnam (dominio di una Francia che nel frattempo ha capovolto le sue alleanze: con Vichy è entrata nel fronte nazista). Tre mesi di viaggio fra bombardamenti e paura che i documenti provvisori di cui si è dotato, validi in un posto non lo siano più nel successivo.
Infine Chengdu e l’incontro con Lien, austera e riservata giovane medico cinese, lui invece festaiolo e alla ricerca di balere come tutti gli ungheresi. Insomma, una storia ben diversa da quella di un altro medico che stava in Cina negli stessi anni, il mitico Norman Bethune, raccontata in un libro che narra di questo canadese che seguì la Lunga Marcia, un classico della bibliografia comunista della mia generazione. Ne avevo certo ricavato qualche informazione, ma è ovviamente ben altra cosa aver compiuto una deliberata scelta e invece trovarsi sballottato in questo terribile tempo vittima di vicende di chi, per via di quel terremoto politico, è rimasto privo di documenti, persino di identità statuale, come suo padre Kolman Kohn.
PER DI PIÙ PER ANNI privo di notizie della propria famiglia, in larga parte scomparsa nei lager nazisti. Quest’ultima una storia che noi europei conosciamo bene, ma non cosa significa per chi l’ha vissuta come un randagio in quel continente lontano.
Anna stessa, che si è messa a scrivere questo libro durante la forzata reclusione imposta dal covid, ha dovuto faticare a ricostruirne le tappe, andando a frugare negli archivi, in particolare quello dell’Iro, l’Organizzazione internazionale dei rifugiati, dove ha persino ritrovato il documento che contiene la richiesta di protezione legale e di assistenza compilata dai suoi genitori prima di lasciare la Cina.
Nel frattempo si erano sposati, il 26 maggio del 1946 a Chengdu, quando la nostra guerra era terminata ma non quella civile in Cina. Ci misero altri anni per rientrare, non sapevano se puntare su Israele appena nato, o sull’Europa e se sì in quale paese. Alla fine, dopo aver navigato per il Pacifico fino alle Filippine, e poi lungo tutta la costa occidentale dell’Africa perché il canale di Suez era bloccato da una nuova guerra già riscoppiata, approdarono nuovamente in Italia. E decisero di restare qui, proprio a Camogli, accolti dal fedelissimo amico di gioventù di Kolman. Festeggiarono lì il Natale del ’49, con loro anche la prima figlia nata a Chengdu. Anna arrivò dopo la sorellina, piantando dall’inizio le sue radici in Italia.

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