VISIONI

Cécile McLorin Salvant, l’incanto sospeso della donna serpente

Live set tra musiche del XII secolo, standard e canzone d’autore
STEFANO CRIPPAITALIA/bergamo

L’ingresso è guardingo. Non sente la voce dai diffusori e sollecita i fonici, così l’apertura di Dame isuet – divertissement su temi caraibici – che in realtà chiude il suo nuovo album Melusine, si dilata dai quasi due minuti dell’originale a oltre otto, quanti servono ai tecnici per risolvere il problema. Poi, come si suol dire, è il diluvio. Perché Cécile McLorin Salvant – il nome più atteso insieme a quello di Hamid Drake nel cartellone del Bergamo Jazz Festival – è una delle certezze assolute del canto jazz femminile. Attiva dal 2010 con un esordio folgorante non si è mai fermata, arrivando con il nuovo lavoro – uscito venerdì scorso proprio in contemporanea con la data orobica – a collezionare sette titoli nella personale discografia. Poliglotta tanto da sapersi muovere con assoluta padronanza fra francese, portoghese e inglese, dimostra la propria macerata capacità di dare spessore a ogni singolo brano. Si tratti di uno standard, un classico della canzone francese o un tema originale a sua firma, Cecile sa andare al cuore profondo delle canzoni.
DAVANTI ai 1200 spettatori del ritrovato teatro Donizetti – riaperto dopo una lunga fase di restauro – ha dato sfoggio della sua arte, accompagnata da un quartetto essenziale quanto rigoroso composto da Glenn Zaleski al pianoforte, Marvin Sewell, chitarra; Yasushi Nakamura, contrabbasso, Keita Ogawa, percussioni e batteria. Nata in Florida da padre haitiano e madre francese della Guadalupa, ha sviluppato una curiosità quasi onnivora nei confronti della musica ma anche della letteratura e dell’arte. Così ogni suo disco o live set, rivela connessioni continue e rimandi che passano con naturalezza dal blues al jazz, alle tradizioni popolari, al teatro e financo alla musica barocca. Non a caso il nuovo album ha come filo conduttore la leggenda di una donna che si trasforma in un mezzo serpente per effetto di una maledizione. Una storia che si dipana attraverso madrigali del XII e XIV secolo e omaggi alla chanson francaise di Ferrè e di Trenet. Il concerto mescola vari stili trattati nei dischi e nei testi – a volte oscuri e inquieti, che li popolano. Così Thunderclouds, sostenuta da una ritmica essenziale, affronta il tema dell’insonnia ma soprattutto quello della sofferenza. Canzoni e stili disparati che alla fine convergono: «Non mi importa – ha raccontato in un’intervista – di alternare generi, a costo di sembrare pazza. Credo che la creatività vada in ogni caso assecondata…». Thunderclouds - che apriva il precedente Ghostsong- si lega a una perla del repertorio di Dianne Reeves, Mista che da territori pop jazz si eleva in un ambiente ritmicamente più inquieto, alternando un canto sostenuto al sussurro.
GIÀ, LA VOCE: Cécile possiede una varietà timbrica, controllo e timing che hanno pochi eguali associati a emozionanti doti interpretative che le permettono di affrontare la classica Nature boy di Eden Ahbez – primo dei due bis proposti dopo l’applauditissima performance – con una finezza nei dettagli palpabile e al contempo naturale. Un’altra voce importante - questa volta del panorama europeo – presentata al Bjf è quella di David Linx in coppia con il talentuoso pianista Leonardo Montana, tra ricordi personali e note d’autore che suppliscono però a uno stato di forma non perfetto dell’artista belga.
Mescolando generi, sperimentando quel tanto che basta, il festival diretto con piglio da Maria Pia De Vito che chiude in bellezza il suo «mandato» artistico di quattro anni – nel 2024 a prendere il suo posto sarà Joe Lovano – ha regalato al pubblico bergamasco nel piccolo teatro ricavato in una sala sotterranea della chiesa di Sant’Andrea, la pirotecnica esibizione piano solo di Amaro Freitas. Dai sobborghi di Recife, nel nord- esta del Brasile, si sta rivelando come uno dei nomi più interessanti del jazz carioca. E non solo. Tre album e un quarto, Sankofa (2021) da cui ha attinto per gli oltre settanta minuti di esibizione dal vivo dove ha palesato talento, rigore fatto di emozioni minimali alternati a tratti percussivi che prendono origine dalle sonorità tradizionali del Pernambuco e da jazzisti che fanno parte del suo dna: da Parker a Coltrane passando a Corea fino a Monk. E proprio a Monk è dedicato il set al teatro Sociale in città alta dei MixMonk, trio formato dal sassofonista belga Robin Verheyen con il pianista Bram De Looze e il cui valore aggiunto è la presenza di Joey Baron alla batteria. Senso della misura, interplay e gioiose interpretazioni dove Monk fa capolino con intere composizioni, semplici accenni e brani originali.
IL GEMELLAGGIO fra Bergamo e Brescia, capitali italiane della cultura 2023, ha dato vita alla Panorchestra, che parte del progetto La città del jazz che vede fianco a fianco Fondazione teatro Donizetti, con Bergamo Jazz e Fondazione teatro grande di Brescia. Un ensemble di improvvisatori – guidati da Tino Tracanna - con ospite speciale l’americano Jonathan Finlayson - impegnato in un repertorio tra jazz e contemporanea, che ha forse bisogno di maggiore elaborazione.
Amalgama che non manca invece al duo formato da Paolo Fresu e Rita Marcotulli che dell’accoglienza e dell’arte dell’incontro, hanno da sempre caratterizzato il proprio approccio concertistico. Nel breve set proposto al Donizetti si sovrappongono con garbo pagine estratte dal repertorio di Jobim, Daniele, De Andrè per congedarsi – il momento migliore e più rigoroso – sulle note della dolente Night Fall in memoria di Charlie Haden. Bergamo Jazz Festival - concluso domenica con oltre 6300 presenze - si «concede» tre date estive al Lazzaretto con Snarky Puppy, Stefano Bollani, Pat Metheny rispettivamente il 10,14 e 19 luglio.

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