CULTURA

Najat El Hachmi, la sete di libertà che nasce nelle periferie migranti di Barcellona

INTERVISTA ALL’AUTRICE DI «LUNEDÌ CI AMERANNO» (SEM), DOMANI AL CERVANTES DI ROMA PER PARLARE DI LETTERATURE MIGRANTI
GUIDO CALDIRONspagna/ialia/roma

Najat El Hachmi è una delle voci più interessanti della cultura catalana degli ultimi anni, anche se questa definizione le va sicuramente stretta. Nata in Marocco nel 1979 e arrivata in Catalogna quando aveva solo 8 anni, El Hachmi esprime la ricchezza, la natura cosmopolita e, allo stesso tempo in grado di raccontare diverse radici e percorsi, di uno spazio ancor più ampio rispetto alla città-mondo di Barcellona. Mediatrice culturale, femminista, scrittrice, con il suo ultimo romanzo, Lunedì ci ameranno (Sem, traduzione di Francesco Ferrucci, pp. 238, euro 20) descrive il percorso verso l’età adulta di due ragazze cresciute come lei in una famiglia dell’emigrazione marocchina e delle diverse traiettorie seguite per affermare la propria personalità e tentare di liberarsi da ogni vincolo. El Hachmi parteciperà domani all’Istituto Cervantes di Roma - Ore 18, Sala Dalì, Piazza Navona 91 - ad un incontro sulle letterature migranti.
Le protagoniste del libro, come di altre sue opere, sembrano muoversi tra due mondi, quello delle famiglie dell’emigrazione marocchina, spesso custodi di tradizioni e regole patriarcali, e quello delle opportunità che una città come Barcellona offre alle giovani donne.
Più che trovarsi tra due mondi, i miei personaggi si muovono sempre ai margini, in una sorta di terra di nessuno sia dal punto di vista identitario che delle condizioni materiali. In questo caso, il genere le condiziona perché devono affrontare famiglie dai valori patriarcali molto solidi e mai messi in discussione, ma poi, quando si affacciano al resto della società si accorgono che anche l’uguaglianza che vi è presente non sembra essere alla loro portata in quanto figlie di immigrati. Non appartengono a due mondi perché ne esiste uno solo, ma è segnato da innumerevoli confini invisibili. E la loro situazione le costringe a confrontarsi di continuo con quei confini, ad attraversarli ogni giorno.
Dal libro emerge come, rispetto alla sua generazione, le giovani di origine marocchina in Catalogna indossino il velo e adottino uno stile di vita più in linea con i «precetti religiosi». La domanda può apparire superficiale: si tratta di un problema culturale, sociale o c’è anche un un tema religioso di fondo?
Non è una questione superficiale, il velo è la punta dell’iceberg della misoginia che subiscono le donne musulmane, un elemento con cui vogliono controllare il nostro corpo, la nostra sessualità e cancellare la nostra identità individuale per farci rappresentare invece la comunità. Il velo di oggi è molto diverso da quelli tradizionali di tipo etnico, il cosiddetto hijab è un’invenzione delle correnti più conservatrici e reazionarie dell’Islam ed è nato proprio quando abbiamo iniziato a liberarci, ad avere accesso all’istruzione o siamo andate a lavorare fuori casa. Non potendo rinchiuderci come facevano con le nostre madri e nonne, hanno inventato un marchio perché fossimo riconosciute ovunque come musulmane prima che come persone. Ed è discriminatorio e misogino perché non c’è niente di simile per gli uomini. In tutta Europa le libertà delle donne musulmane stanno diminuendo mentre il fondamentalismo islamista ha una presenza e un’influenza crescenti. Prima avveniva nelle moschee e sui canali tv satellitari, ora è su Instagram e Tiktok.
Al centro della storia c’è il rapporto tra due ragazze che crescono insieme, ma anche la relazione di ciascuna con la propria madre. Quanto pesa nella sua riflessione il confronto tra diverse generazioni di donne, i differenti approcci alla vita?
Le madri hanno un ruolo molto importante nella storia perché ne rappresentano l’origine letterale, biologica e culturale. In questo senso il legame madre-figlia è complesso, pieno di ambivalenze. Le madri vogliono che le cose vadano bene per le figlie ma hanno il dovere di educarle in un sistema che lavora contro di loro. Le figlie vogliono smettere di essere come le madri ma allo stesso tempo sanno che sono queste ultime che si sono prese cura di loro. Nelle giovani c’è una tensione tra il riconoscimento da parte della madre e il desiderio di libertà. Le figlie sono consapevoli che ogni passo per essere più indipendenti, nel caso della protagonista per approfondire gli studi, le allontanerà un po’ di più dalle madri.
Cosa significa muoversi in uno spazio culturale come quello catalano, percepito come minoritario nel contesto spagnolo, e esprimersi in tale lingua?
La cultura catalana non è chiusa al mondo, la composizione demografica della Catalogna è infatti così varia che ci sono quasi più persone che provengono da altre parti della Spagna o del mondo rispetto a tutti i nonni catalani. La realtà spagnola e quella catalana non sono separate, tanto meno dal punto di vista letterario. Noi scrittori siamo abituati al bilinguismo e io ora scrivo in entrambe le lingue.
La protagonista del libro spiega come il proprio mondo corrisponda al quartiere «della periferia della periferia» dove cresce. Nel suo caso, invece, qual è il rapporto con Barcellona, con la città come con ciò che rappresenta dal punto di vista culturale e dell’immaginario?
Per me Barcellona è sempre stata la città desiderata, ma che non era alla mia portata perché era troppo difficile riuscire a viverci. Ho trascorso gli anni dell’università in treno da Vic, che dista circa 60 chilometri, e ho vissuto il contrasto marcato tra il quartiere in cui sono cresciuta, dominato da un controllo sociale soffocante, e l’atmosfera della grande città in cui potevo essere completamente anonima. Barcellona ha sempre rappresentato la libertà, ma allo stesso tempo non mi era sconosciuta perché avevo letto tante storie ambientate nelle sue strade che quando sono arrivata ho percepito una sensazione di familiarità. Costruire una mappa letteraria di un luogo prima di arrivarci è un’esperienza che ci arricchisce molto perché la differenza tra la letteratura e le guide turistiche è che la prima è carica di emozioni e per me quelle che si provano leggendo sono reali quanto quelle vissute.

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