SOCIETA

«Soccorso urgente, i migranti erano in pericolo»

PROCESSO OPEN ARMS
ALFREDO MARSALAibia/ITALIA/palermo

Erano in pericolo i 55 migranti salvati il primo agosto di quattro anni fa dalla Open Arms, a 70 miglia dalle coste della Libia. Quel barcone di dodici metri ne poteva contenere non più di una quindicina, non c’erano salvagenti, la gente era ammassata, forse a bordo c’erano bidoni pieni di combustibile. Una situazione ad alto rischio, anche se il mare era calmo per «le condizioni di grande precarietà di galleggiamento». Sarebbe bastato poco, persino un minimo movimento improvviso, a fare ribaltare il natante. Nella parte sinistra dello scafo di legno, poi, c’era uno squarcio che poteva fare imbarcare acqua se non si fosse intervenuti in tempo, si vede dalle immagini riprese in diretta dalla Tv spagnola depositate agli atti.
E’ questa la tesi emersa dalle testimonianze dei consulenti tecnici della Procura di Palermo, Renato Magazzù e Dario Megna, e del perito delle parti civili, Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della guardia costiera, sentiti ieri nell’udienza del processo Open Arms, nel bunker dell’Ucciardone, con Matteo Salvini imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per avere impedito alla nave della ong spagnola di fare sbarcare 147 migranti, salvati in più interventi, poi scesi a Lampedusa su ordine della Procura di Agrigento, che aveva verificato le pessime condizioni igienico-sanitarie dei naufraghi.
Da comandante di vari porti italiani, Vittorio Alessandro ha spiegato che in nessun caso avrebbe autorizzato una imbarcazione come quella con i 55 migranti a salpare per un viaggio così rischioso. Era quindi necessario, ha detto, un «soccorso urgente». Lo avrebbero richiesto anche le norme internazionali, richiamate da un altro consulente delle parti civili, Alessandro Carmeni, ex ufficiale della marina militare. Di tutt’altro avviso le tesi dei consulenti della difesa, anche loro sentiti ieri. Per Maurizio Palmesi e Massimo Finelli, ex ufficiali della marina militare, non un salvataggio casuale, durante un'attività di ricerca e soccorso, ma un'operazione di appoggio alle strategie dei trafficanti di esseri umani.
I due hanno ricostruito i movimenti del barcone e quelli dell'Open Arms. Il lavoro si è basato sulle chiamate di Alarm Phone, la prima a segnalare le difficoltà dell'imbarcazione, i rilevamenti aerei, le conversazioni registrate, le annotazioni del diario di bordo e le immagini acquisite dal sommergibile Venuti. Incalzati dalle parti civili, i due consulenti, non sono stati in grado di identificare i trafficanti che avrebbero fornito le coordinate a Open Arms, sostenendo inoltre che non era necessario un intervento urgente. In ogni caso la nave spagnola avrebbe dovuto aspettare le disposizioni delle autorità italiane e l'intervento di un pattugliatore libico che però è arrivato due ore dopo l'inizio del trasbordo. Di «nessun segnale di pericolo» ha parlato anche il capitano di vascello Andrea Pellegrino, ufficiale della Marina militare, sentito come teste. L'ufficiale aveva presentato una relazione sulla quale è stato chiamato a dare chiarimenti. In aula ha descritto i movimenti della Open Arms, che all'improvviso avrebbe cambiato rotta. E questo ha alimentato l'ipotesi, solo l'ipotesi, che la nave potesse recarsi a un appuntamento con gli scafisti. Ma è un aspetto del caso sul quale, ha detto, non si hanno certezze. E di punti interrogativi ne rimangono tanti anche dopo la testimonianza del capitano di corvetta Stefano Oliva, al comando del sommergibile Venuti, che per quasi 17 ore tenne sotto osservazione la nave di Open Arms. Il «Venuti» in servizio di pattugliamento non intervenne ma riprese con il periscopio e il sonar l’operazione di soccorso. A causa del mancato intervento del sottomarino, il legale di Open Arms Arturo Salerni ha informato il giudice di avere presentato ora un esposto alla Procura di Roma e alla Procura militare per omissione di atti d'ufficio nei confronti dei 35 membri dell’equipaggio del «Venuti».

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