VISIONI

Van Morrison riscrive il passato, per forza e per passione

«Moving On Skiffle» riporta il musicista irlandese al suo primo amore
FRANCESCO BRUSCOirlanda

Già in epoca pre-Beatles la città di Liverpool era stata approdo di manie musicali che, giunte lungo le rotte atlantiche al porto cittadino, venivano agevolmente smistate verso le prospicienti coste irlandesi. Gli stessi Fab Four, prima di diventare tali, si erano fatti le ossa con quel peculiare revival che adattava blues, ballate popolari e primordiale rock’n’roll per semplici strumentazioni domestiche fatte di assi da bucato e casse da tè. Nato come musica afroamericana — il nome era un termine slang per «rent party», una sorta di raccolta fondi per pagare l’affitto — lo skiffle si era rivelato altrettanto consono a lenire le sofferenze degli scaricatori di porto britannici.
CLASSE 1945, Van Morrison è ancora uno scolaretto quando scopre i dischi di Lonnie Donegan tra gli scaffali della Atlantic Records a Belfast e decide di consacrarsi in prima persona a quella musica. Un amore mai sfiorito, tanto che in The Skiffle Sessions-Live in Belfast 1998 si sarebbe avvalso dello stesso Donegan e di un altro padrino del genere, Chris Barber. Rispetto a quell’album, Moving On Skiffle (Virgin) è assai meno didascalico e ha il merito di restituirci il lato più creativo di un artista che negli ultimi tre anni era stato un po’ troppo preso da vagheggiamenti complottisti e proclami no-vax. Non che manchi qualche rigurgito di bile anche qui, come quando riscrive Mama Don’t Allow in chiave antigovernativa (Gov Don’t Allow) sbottando «They don’t allow anybody to say what they want, but they’re not gonna stop me rant!» (To rant, inveire, Morrison dixit).
È solo la punta più acida di una reinterpretazione del repertorio skiffle condotta in assoluta libertà, tanto per le variazioni letterarie (quasi un moderno contrafactum, il suo) quanto per quelle prettamente musicali: se il suono che apre l’album in Freight Train è proprio quello quintessenziale del washboard, bastano due secondi netti perché l’ingresso dell’Hammond sveli le reali intenzioni del Morrison arrangiatore, abile a tenere in equilibrio tradizione e innovazione.
QUANTO AL MORRISON interprete, egli è certamente molto vicino al suo stato di grazia. Che il suo coinvolgimento emotivo sia sincero è evidente: lo dice la sua voce ancora gagliarda, l’armonica rauca di No Other Baby, Travelin’ Blues e Take This Hammer, il sax di Greenback Dollar. Tutta la tracklist è scelta a forza di devozione: immancabili i brani portati al successo da Lonegan, Barber e dall’altro pioniere Chas McDevitt (che pare abbia presenziato alle session); ben sette i brani dei Vipers, attraverso i cui dischi Van si era innamorato di Don’t You Rock Me Daddy-O, prodotta nel 1957 niente meno che da George Martin e qui ribattezzata Sail Away Ladies.
E in un viaggio lungo le cui stazioni si rincorrono così tanti «trains» carichi di fatica, disincanto e cinismo, canzoni come I Wish I Was An Apple On A Tree e la conclusiva Green Rocky Road sembrano essere lì per assicurarci che in fondo anche l’irascibile Van sa ancora trasmettere dolcezza.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it