INTERNAZIONALE

Niente di nuovo dal tritacarne di Bakhmut

Guerra ucraìna
MARCO BASCETTAUCRAINA/BAKHMUT

In una delle ultime sequenze del formidabile film di Edward Berger, tratto dal celebre romanzo di Erich Maria Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale, un generale arringa la truppa decimata e stremata. Manca qualche ora all’entrata in vigore dell’armistizio già firmato che metterà fine alla Grande guerra. Ma è il tempo che basta, si infervora il comandante dal balcone del suo quartier generale, perché i “suoi” uomini sferrino un’ultima teatrale e inutilmente crudele offensiva. Un atto di coraggio che li faccia tornare a casa come gloriosi combattenti piuttosto che come “un branco di codardi". Ne torneranno ben pochi, e ancor meno tutti interi. L’ultima carneficina, in corsa con il tempo incalzante della pace, non ha senso alcuno se non quello di soddisfare l’orgoglio e l’ideologia di una grottesca maschera del potere. Questo è il “simbolico di guerra”, il simbolico che uccide, la bella morte, la fedeltà alla causa, qualunque causa, giusta, sbagliata, infame, vincente o perdente che sia. La storia ne offre esempi in quantità, nonché un imponente repertorio retorico, monumentale e letterario.
Non sapremo mai se la difesa di Bakhmut avrà avuto un senso nell’andamento della guerra tra Russia e Ucraina, se si trattasse veramente di un bastione, caduto il quale le forze dell’invasione avrebbero potuto dilagare attraverso tutto il paese o, viceversa, logorarsi ed estenuarsi nel tentativo di conquistarlo. Saranno forse gli storici militari a raccontarcelo un giorno. Quando sapremo anche, passando oltre il filtro della propaganda, quante vite sarà effettivamente costata l’epica di Bakhmut.
Quel che oggi certamente sappiamo è che quasi tutti i principali alleati di Kiev, compreso il più importante, il segretario generale della Nato Stoltenberg, ritengono imminente la caduta definitiva della cittadina nelle mani dei russi. E, in conseguenza, ne sminuiscono l’importanza strategica e il peso sugli sviluppi futuri del conflitto: l’abbandono di Bakhmut da parte dei soldati ucraini non avrà alcun effetto sugli equilibri della guerra. Il contrario esatto di quanto afferma il governo di Kiev in sbandierata e dunque improbabile sintonia con i suoi vertici militari.
La difesa a oltranza di questa cittadina del Donbass, con i suoi spaventosi costi umani, sembra dunque ricadere pienamente nel “simbolico di guerra” e nella retorica della gloria che immancabilmente lo accompagna. Dove l’eroica resistenza può poi defluire su un cumulo di cadaveri, ma senza troppi scossoni, nella celebrazione della “città martire”, come è stato nel caso di Mariupol. Lo stesso significato simbolico è decisivo anche per gli attaccanti, che non solo sono a corto di vittorie da esibire, ma faticherebbero a giustificare un lunghissimo e sanguinoso assedio senza esito alcuno. Peraltro nella conquista di Bakhmut è in corso una competizione dai risvolti oscuri sulla conduzione dell’“operazione militare speciale” tra le truppe mercenarie Wagner e i vertici dell’esercito regolare russo.
C’è poi la motivazione agghiacciante, seppur più aderente a una spietata razionalità militare, esposta dal ministro degli esteri ucraino Kuleba. La resistenza a Bakhmut avrebbe fatto perdere alla Russia più uomini e molto più in fretta della decennale guerra sovietica in Afghanistan. E dunque si giustificherebbe come un efficace tritacarne e un potente strumento di demoralizzazione dei combattenti nemici. Va da sé che nel tritacarne non ci finiscono solo i soldati russi, ma è una questione di proporzioni e queste ultime sarebbero comunque a vantaggio di Kiev. Del resto è noto che difendere ha un costo minore che attaccare. Ma non è questa una logica alla quale ci si possa attenere a lungo, come ci ha insegnato la Prima guerra mondiale. Puntare su una disponibilità senza limiti al sacrificio, dei soldati e dei civili, è un grosso azzardo. Per gli aggressori, in primo luogo, ma non solo. Alla rottura del simbolismo eroico nessuna guerra riesce a resistere. Ce lo hanno insegnato i marinai della flotta imperiale di Kiel, tra il 3 e il 4 novembre 1918, quando rifiutando di salpare per un ennesimo inutile scontro con la marina britannica provocarono la fine del Reich e la rivoluzione di novembre. Storie d’altri tempi, ma chissà.

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