VISIONI

Incantevole Bohème ma troppa tradizione

LIRICA
FABIO VITTORINIITALIA/MILANO

Parrebbe quasi ovvio che per celebrare il centenario della nascita di Franco Zeffirelli il Teatro alla Scala di Milano riporti in scena (fino al 26 marzo) il suo allestimento de La Bohème, approntato nel 1963 con la direzione musicale di Herbert von Karajan. Uso il condizionale perché si tratta della ventiquattresima volta che le scene e la regia di Zeffirelli (riprese da Marco Gandini), con i costumi di Piero Tosi (disegnati per la ripresa del 2000 e ora ripresi da Anna Biagiotti), accompagnano nella sala del Piermarini le scènes de la vie de bohème che nel 1896 Luigi Illica e Giuseppe Giacosa hanno immortalato nel libretto (ispirato al romanzo e alla pièce teatrale di Henri Murger pubblicati quasi cinquant’anni prima) messo in musica da Giacomo Puccini.
CERTAMENTE un pezzo di storia, un omaggio alla «tradizione scenografica ottocentesca», ebbe a dire il regista, «un atto d’amore per un’idea tradizionale della messinscena operistica», che tenta di resuscitare «un mondo in una visione poetica, struggente, per gli effetti scenici, per il movimento delle masse, per le prospettive architettoniche dei fondali», un esercizio di filologia ed estetica che certamente arriva efficace fino a noi, ma è da sessant’anni l’unica versione di Bohème che al pubblico milanese è concesso vedere. Allora la domanda un po’ perfida diviene inevitabile: quando la crepuscolare soffitta parigina immaginata da Zeffirelli verrà messa per qualche tempo in soffitta, in attesa che la sua memoria vividissima sbiadisca un po’, si faccia desiderare e magari venga ripresa con una frequenza meno opprimente?
SUL PODIO, a raccogliere il testimone passato per le mani di Sonzogno, Prêtre, Gavazzeni, Kleiber, Bartoletti, Dudamel e altri, c’è la coreana Eun Sun Kim, al suo debutto scaligero. La sua direzione è energica ma indifferente alla vena malinconica della musica pucciniana (penso in particolare alla rarefatta alba nevosa del terzo quadro e al tristissimo finale) e alle esigenze più schiettamente liriche del canto, col risultato che la dinamica (forte) e il tempo (andante) prevalenti costringono la partitura a una baldanza che le appartiene solo in parte. Ad animare l’attempata produzione c’è un cast di prim’ordine. Nel ruolo di Mimì Marina Rebeka, di recente fischiata nei verdiani Vespri siciliani, ritrova un ruolo nelle sue corde, spingendo forse un po’ troppo sugli acuti, come del resto il suo partner, Freddie De Tommaso, a suo agio nel ruolo di Rodolfo, entrambi vittime del frastuono concertato dalla direttrice.
Nel ruolo di Musetta la sbiadita Irina Lungu. Tutte generose, infine, le voci degli squattrinati Marcello (l’ottimo Luca Micheletti), Colline (Jongmin Park) e Schaunard (Alessio Arduini), che non hanno mai suonato così bene insieme, animando le scene più convincenti dell’allestimento, quelle genuinamente gagliarde dei giovani artisti che si fanno beffe di tutto, comprese la povertà e la fame (l’inizio del primo e del quarto quadro).

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