SOCIETA

Un paradossale ritorno nella Kabul dei Talebani

L’ODISSEA DELLE SALME AFGHANE
GIULIANO BATTISTONafghanistan/italia/cutro

Si è tenuto ieri al cimitero di borgo Panigale, a Bologna, il rito funebre per sette afghani morti nel naufragio del 26 febbraio a Steccato di Cutro insieme ad altre 65 persone. Presenti decine di afghani residenti in Italia e alcuni famigliari, che hanno potuto dare sepoltura ai loro cari.
Sorte diversa per molti altri parenti delle vittime, sfiancati dal rimpallo tra prefetture, agenzie funebri, ministero dell’Interno e promesse non mantenute. In attesa da giorni che le salme siano trasferite, via Germania e Turchia, in Afghanistan. Dove al potere ci sono i Talebani: un problema in più, dicono al Viminale, visto che con le autorità di fatto afghane non c’è alcun canale diplomatico ufficiale e diretto.
PARADOSSI DELLA POLITICA, si passa per l’Ambasciata della Repubblica islamica afghana in Italia. Un’ambasciata che rappresenta un’architettura istituzionale naufragata nell’agosto 2021. Con un ambasciatore, Khaled Zekriya, che non prende certo ordini da Kabul e contesta anzi la legittimità degli islamisti al potere in ogni circostanza. E che si è preso la briga di andare a Steccato di Cutro di persona, molto prima della passerella dei politici italiani.
È andato a incontrare i famigliari delle vittime. A lui, all’ambasciata di uno Stato che non c’è più, sostituito da quell’Emirato islamico che esiste de facto ma non de iure e che è privo di qualsiasi forma di riconoscimento, il compito di emettere i certificati di morte senza i quali le salme rimarrebbero senza nome e non potrebbero raggiungere il Paese di origine. L’Afghanistan da cui si parte, sognando sempre di ritornarci. Vivi però.
Chi cerca facili responsabilità conosce già nomi e cognomi dei colpevoli, oltre ai presunti scafisti: quei Talebani che negano i diritti delle donne, istituzionalizzano l’apartheid di genere e costringono donne come Torpekai Amarkhel, giornalista della Radio tv nazionale e consulente della missione dell’Onu a Kabul (Unama), a lasciare il Paese. Trovando la morte di fronte alla costa italiana. Il problema è enorme, tanto che due giorni fa Roza Otunbayeva, a capo di Unama, ha ricordato che oggi l’Afghanistan «è il Paese più repressivo al mondo per le donne».
MA NON È L’UNICO PROBLEMA. C’è chi scappa dai Talebani, chi va via perché per le donne il futuro è nero e chi emigra perché il Paese è sul baratro, con una gravissima crisi umanitaria, in una transizione politica radicale, dentro un’economia in ginocchio. Non solo a causa dei Talebani, ma per scelte deliberate della comunità internazionale. Come quella di sequestrare i fondi della Banca centrale afghana: 7 miliardi di dollari solo negli Usa, di cui la metà finiti poi in un fondo svizzero. Soldi degli afghani, ma su cui gli afghani non hanno titolarità.
Così come non hanno passaporti né, chiuse le ambasciate occidentali, mezzi per ottenere vie d’uscita regolari. Due giorni fa Abdul Haseeb Karim, il clerico a capo del Dipartimento passaporti, ha detto che sono stati risolti i problemi tecnici e che presto gli uffici riapriranno. Sono chiusi da 5 mesi. Nel frattempo, al mercato nero di Kabul, prezzi alle stelle.

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