CULTURA

Lee Lozano, lo sciopero di sé come arma contro i pregiudizi

Si è inaugurata l’8 marzo alla Pinacoteca Agnelli la prima monografica in Italia dell’artista americana
ARIANNA DI GENOVAitalia/torino

Il 2 ottobre del 1999 Lee Lozano moriva in Texas, all’età di 69 anni. Si chiamava ormai solo E. La sua tomba, nel cimitero di Grand Prairie, è del tutto anonima, rispondendo fedelmente a quel desiderio di sparizione di sé lungo la strada intrapresa dall’artista fin dagli ultimi anni Sessanta.
NON UN CUPIO DISSOLVI, ma una estrema protesta contro i sistemi del potere, spesso patriarcali, che infestavano la civiltà occidentale e contro i quali, praticando la «maleducazione visiva» come arma e con sarcasmo, rabbia e dirompenti giochi di parole, Lozano – figura scomoda e inclassificabile della scena americana di un inquieto decennio – aveva combattuto tutta la vita, mescolando senza risparmiarsi arte ed esistenza quotidiana. Lo fece con le sue opere intrise, con le sue deviazioni linguistiche e anche attraverso i suoi diari privati, tutti scritti su piccoli blocknotes e minuziosamente a mano, in cui raccontava la nascita di alcuni lavori e incorniciava la società dentro slogan senza appello. «Una pittrice le cui budella funzionano magnificamente», diceva di sé. Viscerale e indigesta, sfacciatamente pornografica quando si trattava di denunciare il pensiero fallocentrico, Lee Lozano arriva in Italia per la prima volta con una mostra a lei dedicata che si è aperta non a caso l’8 marzo: è Strike, a cura di Sara Cosulich e Lucrezia Calabrò Visconti, ideata dalla Pinacoteca Agnelli in collaborazione con la Collection Pinault (la monografica emigrerà poi a settembre alla Bourse di Parigi).
FINO AL 23 LUGLIO, nel rinnovato spazio museale di Torino, arricchito dalla riconquista di Pista 500 (l’ex luogo di collaudo delle macchine è ora un giardino pensile, il più grande d’Europa, con quarantamila specie di piante e alcune installazioni permanenti) ci si potrà sottoporre volontariamente a uno shock seriale che si ripete sala dopo sala. Perché Strike, termine che allude ai colpi e alle scosse mentali, e anche al rifiuto del lavoro così come viene prefigurato dagli «altri», è una miccia accesa, puntata verso il futuro. D’altronde, il primo allontanamento dal mondo dell’arte di Lozano – era il 1969 – va sotto il titolo General Strike Piece. Lozano cominciò a registrare le sue «ultime volte» di relazione con l’arte e decise anche di boicottare le donne: per lei era una forma di ribellione di fronte all’irrilevanza cui erano destinate. Una posizione la sua criticabile certo, ma non si può prescindere dalla programmatica cancellazione del femminile (e di sé stessa), da lei giudicata necessaria per interrompere i pregiudizi e porsi «al di fuori», come in fondo fece anche in Italia Carla Lonzi, scegliendo la via del rifiuto.
Corpi femminili, ma soprattutto genitali maschili – stritolati, trafitti da oggetti meccanici, «raccontati» con calembours che li ridicolizzano – e molti «tools», strumenti di lavoro (gli stessi con cui si farà ritrarre) sono i soggetti che esplodono sulle grandi tele. Nel tempo precipiteranno dentro un minimalismo metallico, in cui le emozioni si nasconderanno dietro le proporzioni matematiche di quei reperti industriali riversati nell’agone di un protagonismo agghiacciante. «Meglio essere martello che chiodo», affermerà. I suoi frammenti rappresentano la realizzazione di una disturbante fusione tra macchina e umano, direbbe Haraway.
POLITICA SEMPRE, acre e satirica, non isolata nel breve periodo che la vide al centro della scena dell’arte americana, Lee Lozano rivendicò corpi, sessualità e deflagrazione delle regole senza proclamarsi mai femminista né partecipare a una lotta comune. Eppure nel 1970 donò un suo disegno all’asta per supportare le Black Panthers. La politica, come le sue opere, si poteva rintracciare in un approccio viscerale, non programmatico. Il suo immaginario, costellato di nasi fallici, aerei, metamorfosi grottesche, verbi e parole «proibite» mixava i linguaggi della pubblicità e degli artisti Pop, sovvertendo e oltraggiando quel pattern visivo. Per poi scrivere sulle pagine di diario «I’m a nobody in time. I’m no-time in a body». E, infine, svanire.

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