CULTURA

Alle soglie di un nuovo modello di creazione

TIZIANA MIGLIORE ITALIA

La funzione moderna dell’arte (Mimesis, pp. 258, euro 26), di Dario Evola, è un’indagine sulla modernità dell’operare artistico e della sua ricezione, dal XVIII secolo all’inizio del XX. Evola, sviscerando la maggior parte degli avvenimenti clou che hanno favorito e sviluppato la «modernità», dà rilievo alla funzione dell’arte più che alla sua essenza, vuoi per il carattere di energheia tipico di quei tempi, vuoi per le derive che questa funzione ha oggi, nella propensione del gusto artistico alla performance.
L’AUTORE non si limita a fornire dati e riferimenti del passaggio alla modernità, ma ne indica i sintomi precisi: la produzione non necessariamente legata al bello ma certamente al giudizio e al progetto; la mobilitazione dell’arte, di opere (fisica e non, grazie alla riproducibilità tecnica), di persone – esperti, estimatori, curiosi, mercanti – e di discorsi sulle opere, con il resoconto, il reportage, il diario; l’idea, in continuità con Aristotele, che il sentire sia attivare la logica; il rapporto stretto e fruttuoso fra tre «istituzioni» con cui l’arte si mobilita e mobilita il suo pubblico e lo sguardo: il museo, l’estetica e l’accademia.
QUESTI QUATTRO TRATTI di pertinenza della funzione artistica moderna confutano indirettamente la tesi, pur difesa nel libro ma oggi non sufficiente, per cui «Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» (Dino Formaggio). Purtroppo sempre più spesso ciò che viene chiamato «arte» ha pochissimo a che fare con l’analisi su come l’arte si produce nel mondo e per il mondo.
Fra il XVIII secolo e l’inizio del XX, accademia, museo ed estetica hanno sollecitato pratiche di intelligenza fondate sull’estensione percettiva. Nelle prime accademie, a Firenze e a Roma, già intorno alla metà del XVI secolo, il disegno era riconosciuto come esercizio intellettuale; il termine che designa il luogo di formazione degli artisti è appunto ambiziosamente «accademia», come la scuola filosofica di Platone, a sottolineare gli ideali alti che la ispirano.
PRODURRE ARTEFATTI aveva senso solo in un progetto d’insieme finalizzato a garantire la dignità della funzione artistica e la trasmissibilità dei saperi. Il Novecento trasferirà queste competenze superiori nell’idea di design, che in scuole come il Bauhaus impregnerà a tal punto la pedagogia da costituire una riforma sociale, in quanto spazio di attivazione del pensiero e di elaborazione del possibile.
Nel sistema delle arti delineato da Charles Batteux, e che Evola riconsidera, l’arte si radica nell’esperienza e l’estetica è l’attività della comprensione, in una dimensione non esclusivamente filosofica ma antropologica. Dalla parte del pubblico, con il Grand Tour l’interesse per i capolavori dell’arte diventa investigazione e grazie a Diderot, alle descrizioni dei Salons di Parigi prima ancora di Kant, l’opera schiude la via del pensiero; è un «semioforo» (Pomian). Da Duchamp in poi si rafforza la sua efficacia, una praxis trasformatrice non disgiunta dall’astuzia, dalla metis. Evola ricorda il furto della Gioconda dal Louvre e quanto esso abbia scatenato una diffusione massiccia dell’opera su riviste, cartoline, giornali. L’icona di Leonardo passa dalla sede cultuale del museo alla catena di montaggio dei mezzi di comunicazione e all’appropriazione concettuale degli artisti. Ecco il readymade (1919) di Duchamp con baffi e pizzetto. Le lettere L.H.O.O.Q. alludono ironicamente al surriscaldamento della tradizione attraverso i media: la pronuncia dell’acronimo in francese dà infatti elle a chaud au cul.
CHE NE È OGGI di questo intreccio fra intuizione, organizzazione visiva e pensiero? Senza mai scadere nella nostalgia Evola nota l’impoverimento dell’arte, divenuta produzione unicamente informativa, superficiale. Fa l’esempio dell’uso insulso dell’interattività nelle installazioni e nei video, concepita come un meccanismo reattivo di segnali automatici privo di operatività poetica e che ricerca a tutti i costi il sensazionalismo e il mero intrattenimento. Di ritorno rispetto all’accademismo tradizionale, centrato sulla ripetizione del modello classico, irrompe un banale «accademismo del contemporaneo», il cui modello è la comunicazione mediatica compulsiva e pervasiva, che esclude il logos e la riflessione in cambio di consensi alla liquidità. È anche l’effetto, nelle Accademie e negli Atenei, di una didattica nozionistica, frantumata, ridotta a un elenco di crediti e che non permette la maturazione di progetti artistici e culturali.
Perché stupirsi se poi la politica manca di idee? L’educazione visiva, attività umana preposta, con il risveglio dello sguardo, all’incorporazione e alla trasmissione di saperi, abilità e competenze, prioritaria nell’Umanesimo e nel Rinascimento e cruciale nella modernità, non è più nella scala dei valori.

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