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Peù, le ferite aperte

ELENA BASSOperu/lima

Jeanpierre si sporge verso sua zia Guillermina e le mostra una lista che sta guardando sul cellulare. Sono centinaia di nomi, scorrono uno dopo l’altro, alcuni sono evidenziati in giallo, altri in rosso e alcuni in grigio. Le spiega: «Vedi, questi grigi sono gli N.N., i feriti che stanno in ospedale e sono senza identità. Sono le persone che non avevano documenti e non hanno ripreso conoscenza per spiegare chi siano. I nomi in rosso invece sono i casi considerati gravi e i gialli i "moderati". Miguel Ángel è stato messo fra questi ultimi».
GUILLERMINA GUARDA I NOMI e annuisce, sono quasi tutti ragazzi giovanissimi, 15, 20, 22 anni. Sono le centinaia di cittadini feriti dalle forze dell’ordine peruviane durante le proteste scoppiate lo scorso 7 dicembre, quando l’ex presidente Pedro Castillo ha tentato di sciogliere il Congresso ed è stato arrestato. Da quel giorno il Paese latinoamericano è piombato nel caos e Dina Boluarte, nominata dal Congresso nuova presidente del Perù, ha represso nel sangue le manifestazioni.
La polizia e l’esercito sono scesi nelle piazze con armi da fuoco e fino ad oggi i morti ufficiali sono 59, anche se le associazioni che lottano per i diritti umani stimano che siano quasi 80. Per gli stessi enti che si stanno occupando dei casi è impossibile stabilire con precisione quanti siano i manifestanti detenuti (che ora stanno affrontando imputazioni che vanno dal terrorismo al crimine organizzato) e quanti i feriti, anche gravissimi. Ma un fatto è certo: gli ospedali di Lima e delle altre province sono affollati di cittadini colpiti durante le proteste.
MIGUEL ÁNGEL, CHE HA 22 ANNI, sta lottando fra la vita e la morte e non si sa se uscirà mai dall’ospedale. «È il mio unico figlio maschio e mi sento triste. A Lima non ho familiari o conoscenti e sto affrontando tutto questo da sola. La verità è che mai mi sarei potuta immaginare che a mio figlio sarebbe successa una cosa del genere», dice Guillermina fra le lacrime.
Il 15 dicembre scorso Miguel Ángel si trovava a casa e stava guardando sui profili social dei suoi amici cosa stava accadendo durante le proteste ad Ayacucho, la sua città. A un certo punto, verso le 4 di pomeriggio, si è alzato in piedi e ha detto che doveva uscire, doveva andare alla manifestazione. Ad Ayacucho in quel momento sembrava di stare in guerra, da ore si sentivano solo spari della polizia, sirene e urla. I suoi familiari hanno cercato di bloccarlo ma lui è stato irremovibile. «Ho appena visto dal profilo di un mio compagno uno dei miei amici morire. Gli hanno sparato in testa e ora stanno riprendendo il suo cadavere abbandonato in mezzo alla strada mentre la polizia continua a sparare. Non posso lasciarlo lì, devo andare».
Quando lo hanno guardato uscire dalla porta, i suoi parenti ancora non sapevano che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbero visto camminare e parlare.
MENTRE MIGUEL ÁNGEL cercava di portare via il cadavere del suo amico un militare gli ha lanciato contro una bomba lacrimogena che lo ha colpito alla testa. È stato portato all’ospedale di Ayacucho per poi essere trasportato a Lima per ricevere cure specialistiche; ad oggi è già stato operato tre volte e non si sa se le sue condizioni miglioreranno. «Quando siamo arrivati a Lima il medico che doveva curarlo ci ha chiesto da dove venissimo. Gli ho risposto, ha cambiato faccia e ha cominciato a urlare: "Ma allora tuo figlio è un terrorista, siete tutti degli sporchi terroristi" - ricorda con rabbia Guillermina -. Gli ho detto che era falso, mio figlio è un bravo ragazzo che ha lasciato l’università per aiutarmi a lavorare nei campi. Non è un delinquente, è un innocente. Uno dei tanti che la polizia ha attaccato».
Guillermina, che proviene da una delle zone più rurali del Perù, ha cresciuto da sola suo figlio e racconta che nell’ospedale volevano che lo portasse a morire a casa: dato che non è coperto da un’assicurazione sanitaria all’ospedale pubblico i medici rifiutavano di prestargli soccorso. La famiglia, già provata da quanto accaduto, ha dovuto cercare l’appoggio di politici e associazioni che facessero pressione per far operare il ragazzo.
Mentre Miguel Ángel lotta fra la vita e la morte le proteste continuano in tutto il Paese. Nate per chiedere la scarcerazione dell’ex presidente Castillo, le manifestazioni sono cambiate nel tempo e oggi sono una vera e propria rivolta contadina, nata dai settori più poveri e marginalizzati della società peruviana.
SCHIACCIATI dalla discriminazione e da una serie di politiche socio-economiche di stampo neoliberista attuate nel Paese dall’inizio degli anni ’90, oggi i cittadini delle zone più rurali del Perù hanno deciso di dire basta e chiedono a gran voce più giustizia sociale, la redazione di una nuova Costituzione e le dimissioni della presidente Boluarte. E per farlo hanno deciso di paralizzare il Paese scendendo quotidianamente in piazza, occupando gli aeroporti (fondamentali per il settore turistico), scioperando dal proprio lavoro e bloccando ogni giorno fra le 60 e le 80 strade, in cui non possono passare autovetture, bus, camion o ambulanze. Ma, nonostante la paralisi del Paese vada avanti da mesi senza interruzione, la classe politica sembra non voler ascoltare i cittadini e fino ad oggi sono 9 le proposte rifiutate dal Congresso per anticipare le elezioni.
Mentre Guillermina racconta quello che è accaduto a suo figlio Miguel Ángel, di fronte a lei si trova un’altra mamma che ha cresciuto da sola il suo bambino. Seduto accanto a lei c’è suo figlio, di soli 15 anni, che ascolta commosso e racconta quello che gli è successo. Il 16 dicembre scorso stava tornando a casa dal lavoro e nella sua città, Pichanaqui, c’erano delle proteste. Lui non ha visto nulla, ha sentito solo un rumore e pensava di essere stato colpito da una pietra. Ma in pochi secondi ha visto decine di persone terrorizzate correre verso di lui per soccorrerlo e quando ha guardato in basso ha visto che il suo braccio era aperto: non c’erano più carne o pelle, solo ossa rotte e sangue.
«QUANDO MI HANNO CHIAMATA per dirmi che stavano portando mio figlio in ospedale ero sicura me lo avessero ucciso - dice sua madre -. Sono arrivata lì e l’ho trovato ancora sanguinante e buttato su una lamiera. Gridava dal dolore».
Christopher non sa chi gli abbia sparato, lui stava semplicemente camminando per strada. Ma suo cugino, che era poco distante da lui, ha visto un poliziotto alzare un fucile, puntarlo contro di lui e sparare due colpi. Anche nel suo caso i medici non volevano operarlo e hanno intimato alla madre, a cui urlavano che era stata una irresponsabile a mandare suo figlio alle proteste a lanciare pietre, di portarlo via oppure pagare 10mila dollari per l’operazione. «Noi siamo gente umile - dice la donna - quindi ho fatto l’unica cosa che potevo fare: in piena notte ho iniziato a scrivere sui miei profili social quello che accadeva e, dopo aver pubblicato ininterrottamente per ore, qualcuno si è messo la mano sul cuore e ci ha aiutato».
Oggi non si sa se Christopher, che nel frattempo è stato trasferito a Lima, potrà recuperare totalmente l’uso del braccio ma quello che lo tormenta è capire perché sia stato aggredito. «Io ero solo con i miei abiti da lavoro e non avevo nulla in mano. Né bastoni né pietre - sostiene -. Mi chiedo, che pericolo rappresentavo?».

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