VISIONI

Storie dal teatro della vita, la famiglia di Philippe Garrel

«LE GRAND CHARIOT» IN CONCORSO
CRISTINA PICCINOgermania/berlino

Philippe Garrel parla sempre (un po’) di sé, i suoi film sin dagli inizi hanno come materia il vissuto dell’artista, e non potrebbe essere altrimenti di fronte a scelte politiche e esistenziali, che questo fare cinema caratterizzano direttamente. Eppure non è narcisismo (non sarebbe il meraviglioso autore che è), il sentimento che attraversa la sua opera, quei frammenti di vissuto nella distanza della narrazione, quasi magicamente, si schiudono su altro e portano in sé una sensibilità che riguarda esistenze molteplici e altre «cicatrici interiori» interrogando al tempo stesso ogni volta la propria materia, il fare cinema del regista che nella sua riconoscibilità non è mai uguale a ogni nuovo passaggio.
COSA RACCONTA allora Le Grand chariot? Di una famiglia di burattinai, il padre, i tre figli – che sono i figli di Garrel, Louis, Esther, Lena (vista da poco in Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi) e la nonna lavorano e vivono insieme, come le famiglie teatrali di un tempo, preservando una dimensione «artigianale» che è quanto il padre ha voluto insegnare loro. Fuori dal piccolo teatro c’è la vita di ogni giorno, le chiacchierate, le confidenze, i ricordi della nonna, le battaglie politiche di Lena, le ambizioni di Louis che vuole essere attore, i silenzi di Martha la più legata alla tradizione famigliare, i giochi, la presenza discreta del padre. E poi c’è un artista che dà loro una mano, aspetta un figlio ma si innamora di un’altra ragazza giovane, vorrebbe solo dipingere però la sua arte non trova sbocco e lui crollerà.
Ci sono infinite suggestioni in questo film «famigliare» nel quale Garrel riunisce per la prima volta i suoi figli, e dove l’autobiografia si mescola con leggerezza in un narrare che è fatto di epifanie improvvise, luci e dettagli cromatici di estrema cura – alla fotografia c’è la genialità di Renato Berta. Si parla di lutti, di perdite, di amore, amicizia, di scelte. Delle eredità che passano tra generazioni e del bisogno di seguire i propri desideri. Dell’ostinazione e del dolore di non riuscire a trovare una strada per la propria arte o di quanto può essere alto il prezzo dei rifiuti rispetto al sistema di una industria.
IL PICCOLO TEATRO dei burattini, dove i bambini ridono a quelle vicende lontane, forse le stesse che facevano divertire le mamme e i papà, somiglia a un posto fuori dal tempo, in cui quella ritualità che tramanda sapienza e personaggi di scena, la precisione dei gesti che sono quasi una danza e la dolcezza del sorriso fa parte di ognuno dei suoi protagonisti.
Un evento improvviso costringe la famiglia a ripensare al proprio lavoro, e dunque alla propria vita , ma che cosa significa lasciarsi alle spalle l’infanzia e le abitudini di sempre? È in questa capacità la trasmissione dei saperi o nel ripetere sempre ciò che è stato?
Garrel riesce a cogliere qui più che altrove l’istante: la fisicità dei suoi personaggi, filmati da vicino nei primissimi piani, è quanto ce li svela, poco a poco: sono le loro emozioni, i dubbi, l’irruenza, la determinazione, ogni gesto narra, dichiara, si fa storia nello spazio dell’inquadratura. E qui, nella casa che è quasi come un teatro, o prolungamento di esso, che contiene i loro vissuti e quindi una materia preziosa, Garrel li segue, li tratteggia, ne cattura i sentimenti più segreti. Intreccia la memoria al presente: la nonna che ricorda i suoi rifiuti alla religione – e ha persino deciso di de-battezzarsi – e la nipote, Lena, femminista Femen che sul seno scrive la sua protesta facendosi arrestare per questo.
C’È UNA MAGNIFICA libertà in questo film, tra i più belli visti finora in un concorso ingabbiato, che commuove anche per quell’ostinazione a cercare una forma che nella creatività si interroga appunto sulla vita: E lo fa con delicatezza, in modo quasi impercettibile, senza fragori né dichiarazioni di intenti, con la sua forma solo in apparenza «lineare» che non ha bisogno di trucchi o di esibizioni di stile perché la sua potenza e il suo incanto sono lì, nel gesto di filmare dell’autore, nel suo modo di porsi (e di essere) rispetto al mondo, portandovi un’esperienza che si trasforma. E che in quel gesto ricompone le tensioni, e dichiara un grande amore, e soprattutto quel prezioso rispetto verso le scelte di ciascuno, non solo tra i padri e i figli. Qualcosa di raro, forse persino un’utopia, che è politicamente una magnifica resistenza.
C.PI.

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