POLITICA

Mai così pochi elettori. Destra prima nel vuoto. Ma la crisi è di sistema

ANDREA FABOZZIITALIA/LOMBARDIA/LAZIO

È finita molto peggio della già molto cupe previsioni. A votare è andata una piccola minoranza di chi avrebbe dovuto scegliere presidenti e consiglieri regionali. Nel Lazio il 37,2% degli aventi diritto, meno di 1,8 milioni su 4,8 milioni di elettori. È un record negativo non solo per il Lazio e per le regionali, ma per la storia elettorale di tutto il paese e di tutte le elezioni. A Roma l’affluenza è stata la più bassa: 33,1% e il tracollo c’è stato nei municipi di periferia, est e ovest (Torre Angela e Ostia) dove ha votato poco più di un elettore su quattro.
Appena un po’ più contenuto il disastro della Lombardia, dove l’affluenza regionale si è fermata al 41,67%, vale a dire che su 8 milioni di elettori potenziali alle urne sono andati in 3,3 milioni. A Milano l’affluenza è stata di pochissimo superiore a quella della regione ma in città, al contrario che nella Capitale, la partecipazione è crollata più nei quartieri centrali che in quelli periferici.
NON ERA UN PICCOLO TEST per via delle dimensioni dei territori coinvolti: alle urne avrebbe dovuto recarsi circa un quarto di tutto l’elettorato nazionale. Ed è la prima volta che ovunque si sia votato, senza eccezioni - due regioni, diciassette provincie (dodici in Lombardia e cinque nel Lazio) - l’ampia maggioranza delle elettrici e degli elettori abbia deciso di non partecipare. È dunque un punto di non ritorno. Il fatto che a scegliere presidenti e consiglieri siano stati in così pochi mette inevitabilmente in discussione il valore di queste scelte. La dimensione della diserzione va ben oltre quella di un passaggio a vuoto, un incidente, comincia invece a dare forma compiuta alla crisi della democrazia della rappresentanza. Anche perché si tratta di un tracollo che arriva come un burrone lungo un percorso di partecipazione che è già in discesa da almeno un decennio e per tutte le elezioni: politiche, europee e amministrative oltre che regionali. Sono proprio le regionali - è un dato consolidato - le elezioni che coinvolgono di meno insieme alle europee, ma il picco negativo di ieri getta una luce inquietante sui progetti di autonomia differenziata. Soprattutto sulle pretese di presidenti senza popolo (in prima fila quello lombardo) che vogliono sottrarre all’equilibrio nazionale risorse e competenze.
CI SONO RAGIONI TECNICHE che gonfiano l’astensionismo alle regionali, innanzitutto il fatto che rispetto alle politiche gli elettori residenti all’estero gonfiano le liste ma non possono votare a domicilio, dunque nella quasi totalità dei casi non votano. Poi ci sono tanti altri fattori: la scarsa propensione a uscire di casa, soprattutto in inverno, di una popolazione largamente anziana nelle due regioni, la distanza dal luogo di residenza per studio o lavoro che in Italia impedisce di votare, la chiusura delle scuole usate come seggi elettorali che diventa una spinta per le famiglie a programmare viaggi. Ma messi insieme questi fattori possono spiegare, a tutto concedere, un 15% di astensionismo. E drammatizzano dunque l’analisi, perché tutto quello che resta è astensionismo non tecnico ma politico. Scelta consapevole, anche quando dettata da disattenzione o rassegnazione, che arriva a riguardare ormai - depurata da tutte le altre ragioni - il 50% dell’elettorato. I numeri assoluti usciti (come da tradizione molto lentamente) dalle urne aiutano a interpretare l’astensione.
SOLO QUATTRO MESI e mezzo fa, quando si è votato per le politiche - elezioni senz’altro diverse, eppure troppo vicine nel tempo per non prenderle a paragone - il centrodestra nel Lazio aveva raccolto oltre 1,2 milioni di voti. Questa volta la coalizione non raggiunge il milione di voti. Una cifra quasi identica a quella che aveva già raccolto cinque anni fa alle regionali, quando aveva perso contro Zingaretti. Rispetto al 2018 il partito di Meloni guadagna voti sì assoluti, ma rispetto al settembre scorso ne perde almeno un terzo, risultato che le percentuali nascondono proprio a causa della grande astensione. In voti assoluti è persino più contenuta, rispetto alla destra, l’emorragia della coalizione intorno al Pd, ma solo prendendo il metro delle politiche (enorme invece il calo rispetto alle regionali). Ed è pesantissimo il crollo dei 5 Stelle che lasciano per strada circa il 50% dei voti delle politiche.
In Lombardia la coalizione di Fontana non vede neanche con il binocolo i 2,5 milioni di voti raccolti alle politiche di settembre scorso, peraltro la stessa quota già raccolta alle regionali del 2018 e, con lo spoglio ancora in corso, resta lontano anche dai 2 milioni di voti. All’interno della coalizione comunque vincente, Fratelli d’Italia si conferma primo partito ma resta lontanissimo dal milione e mezzo quasi di voti raccolto quattro mesi fa (difficilmente arriverà a 800mila a sezioni chiuse) mentre la Lega è sì battuta nella corsa interna alla coalizione ma, considerando anche i voti della lista Fontana, è a sorpresa l’unico partito del centrodestra che può riprendersi quasi tutti i voti delle politiche malgrado l’enorme peso dell’astensione.
NEL COMPLESSO la destra dunque deve il suo successo non a una capacità di espansione sulle ali della vittoria alle politiche, ma soprattutto all’assenza di avversari sfidanti. È la stessa dinamica delle recenti elezioni politiche, che aveva visto soprattutto una tenuta complessiva del campo di destra, capace di correre unito, e al suo interno una redistribuzione tutta in favore di Fratelli d’Italia. La maggioranza di governo anche questa volta vince per abbandono.
UNA CONFERMA del fatto che l’astensionismo ha colpito pesante gli avversari della destra, considerati come un voto inutile perché non in gara, viene dai municipi dei due capoluoghi di Regione. A Roma D’Amato raggiunge i suoi migliori risultati al centro, dove l’affluenza è crollata meno, e i suoi peggiori nei municipi VI e X che sono quelli con la più bassa affluenza. A Milano la percentuale peggiore di Majorino si registra nel primo municipio che è proprio quello dove c’è stata la minor partecipazione al voto.

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