POLITICA

Anche i magistrati chiedono regole nuove per il trojan

INTERCETTAZIONI
ANDREA FABOZZIITALIA/ROMA

In un angolo rimasto al riparo dalle furiose polemiche sulla giustizia, la seconda commissione del senato continua il suo lavoro di indagine sulle intercettazioni. Le audizioni stanno portando alle luce soprattutto due cose. La prima: l’ultima riforma - Orlando 2017, entrata in vigore nel 2020 con modifiche di Bonafede - funziona abbastanza bene. Il meccanismo dell’archivio informatico segreto sotto la responsabilità del procuratore e la distinzione tra ascolti rilevanti e irrilevanti - solo i primi nella fase in cui gli atti diventano pubblici possono essere conosciuti - ha bisogno al più di piccoli correttivi, non di stravolgimenti. La seconda e più preoccupante scoperta è invece che proprio lo strumento più invasivo della privacy e potenzialmente più minaccioso dei diritti degli intercettati è sostanzialmente privo di regole adeguate e aggiornate. Si tratta ovviamente del «captatore informatico», il famoso Trojan horse che può essere introdotto dalla polizia giudiziaria tramite società private in quello che per la legislazione tedesca è ormai riconosciuto come il «domicilio informatico» della persona. Un domicilio che in Italia è senza tutele.
A dirlo ai senatori della commissione giustizia non sono solo i professori di diritto penale o i tecnici chiamati in audizione, ma anche i magistrati inquirenti e i giudici. Anche quelli che esordiscono rivendicando la necessità di confermare il trojan anche nelle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione (insieme a quelli di mafia e terrorismo). Ripresa da molti è stata a segnalazione del procuratore nazionale antimafia Melillo: tutto quello che è diverso dall’intercettazione ambientale fatta mediante l’attivazione del microfono, ma è altrettanto o più sensibile come chat, mail, foto, video o come il sequestro dell’intero smartphone, non è oggi soggetto al filtro dell’archivio segreto. «Il captatore non è disciplinato dal punto di vista tecnico» ha detto ieri l’ingegnere informatico Giovanni Nazzaro. «La legge non si occupa di altro che di come vada acceso e spento il microfono», ha aggiunto il professor Mitja Gialuz. Mentre per il presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo «serve un sistema di garanzie adeguato alle potenzialità invasive del mezzo, oggi non c’è».
Anche il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco ha segnalato dei problemi, specie per il ruolo totalizzante e senza possibilità di controllo delle società private alle quali le procure e la polizia giudiziaria si affidano. Durante la sua audizione i senatori di destra sono ricaduti nella tentazione, già vista con alcuni tecnici nelle settimane passate, di trasformare la commissione giustizia in un aula del processo al processo Palamara, la prima e più illustre vittima del trojan a giudizio a Perugia per corruzione. In ogni caso Turco ha confermato: la procura di Firenze sta ancora indagando, da due anni, sul cattivo uso del trojan da parte della società Rcs che lo installò sul telefono di Palamara. «Indubbiamente il contratto con la procura di Perugia non è stato rispettato. Verifichiamo se ci sono risvolti penali».
a. fab.

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