VISIONI

Il rito dei femminielli per Mamma Schiavona, «una preghiera laica»

Domani ad Avellino le celebrazioni della Candelora. Le origini secondo Marcello Colasurdo, voce degli Zezi
FRANCESCA SATURNINOITALIA/avellino

«Candelora, Candelora/ ‘state ‘rint, viern’ fora. Tutt’ se fa pe te, mamma Schiavona. Ma si a’ fora ancora chiove, primmavera trica ancora». «La sapevano lunga i nostri avi che andavano sulla scala santa a chiamare il sole e la luce. Sono figlio delle donne del cortile, dove la cultura popolare contadina si è mischiata con quella della fabbrica. A Pomigliano abbiamo convissuto col canto del gallo e il suono della sirena. Queste donne un giorno mi misero su un pullman e mi portarono a Montevergine. Vidi la Madonna nera, le anziane che salivano la scala santa inginocchiate. Ero ragazzo: tutto questo mi entrò nella testa». Così racconta il maestro Marcello Colasurdo, storica voce del gruppo operaio dei «Zezi» di Pomigliano d’Arco.
LO RAGGIUNGIAMO telefonicamente mentre è ancora in degenza dopo alcune operazioni che hanno messo in allerta tutto il suo «popolo». Marcello è uno degli ultimi cantori della tradizione popolare, custode dei riti contadini ancestrali e pagani come quello della Candelora che si celebra il 2 febbraio a al santuario di Montevergine, Avellino. Protagonista «Mamma Schiavona», come la chiamano affettuosamente i devoti, una Madonna nera bizantina, considerata la madonna dei femminielli partenopei e della comunità lgbtqi. «Noi la chiamiamo anche la "turca cristiana", si trova pure a Costantinopoli», continua Colasurdo. La sua festa richiama migliaia di persone - curiosi, devoti, giornalisti, attiviste lgbtqi, musicisti, studiosi - da ogni parte del mondo. Anche quest’anno in tanti torneranno ad affollare il sagrato della chiesa e lo spazio antistante che si riempie di bancarelle, musica popolare, danze sfrenate. Molti i pullman previsti, organizzati da realtà come ATN Associazione Trans Napoli, con persone che arrivano anche dal MIT Movimento Identità Trans di Bologna. La giornata è scandita dal ritmo mistico delle «paranze», gruppi di suonatori e danzatori di tammurriate e tarantelle che si alternano da mattina a sera nei dintorni della chiesa. Anticamente si arrivava a Mercogliano, paese sotto la montagna del santuario, con mezzi di fortuna. Da lì si saliva a piedi in pellegrinaggio, passando tra fitti boschi di castagno. Da qui il termine juta, salita, a Montevergine. Negli anni ’60-’70 c’è stata la più ampia diffusione della juta, mai scomparsa, ma col tempo assopita. Recentemente, complice anche l’esplosione della cultura queer, si è registrato un revival, soprattutto tra i più giovani. Il culto della Schiavona s’innesta sincreticamente con quello delle «dee madri» sparse in tutta la regione: la Madonna di Montevergine apre e chiude il ciclo delle sette Madonne, legato a quello della semina e della raccolta. «È la festa della primavera, dell’amore, della madre terra», spiega Colasurdo che negli ultimi quarant’anni ha guidato col suo canto la processione che dal sagrato della chiesa muove verso la cappella dov’è collocata l’icona bizantina. «Parliamo di una divinità femminile pre cristiana. Penso a Iside, Cibele, Afrodite. Il contadino ha arato la terra, ha piantato e curato il seme. Madre terra l’ha tenuto per quattro mesi: nel giorno della Candelora quel seme è diventato un fiore che fa capolino per la prima volta. È la festa della fecondazione avvenuta. Noi siamo i figli di mamma Schiavona, in senso apotropaico, metaforico. Siamo maschere che amano la luce e ringraziano per i frutti ricevuti. Il santuario sorge sul monte Partenio, sui resti dell’antico tempio dedicato alla dea Cibele, la Magna Mater».
Qui i coloni Greci salivano da Cuma, Neapolis, Puteoli per onorare con canti, suoni e danze questa divinità arcaica. Catullo e Virgilio raccontano che nell’equinozio di primavera i sacerdoti della dea suonavano tamburi e cantavano in processione fino all’estasi orgiastica, durante la quale arrivavano a evirarsi ritualmente per offrire il loro sesso in dono e rinascere con una nuova identità. Un altro dei motivi per cui la Schiavona è considerata la madre del popolo del «terzo genere» si rintraccia in una leggenda: nel 1256 due uomini scoperti in atteggiamenti amorosi furono condotti nel sul monte, legati e lasciati morire. La Madonna di Montevergine ne ebbe pietà e li liberò. «La Candelora cade nel periodo di Carnevale», aggiunge Colasurdo, «allora non si scandalizzavano quando vedevano qualche uomo truccato, travestito da donna. È normale che la gente si travesta, è sempre accaduto nelle più antiche tribù. Ci presentiamo a nostra madre per onorarla, dobbiamo sembrare belli davanti a lei. Per pregare usiamo gli strumenti della cultura popolare: tammorre, zampogne, ciaramelle, triccheballacche. Il tamburo ha settemila anni, si trova in tutto il mondo. È lo strumento della cultura pastorale e contadina, risale alla transumanza, uno dei primi mestieri dell’umanità».
I FESTEGGIAMENTI di questo popolo fluido che non si riconosce nella suddivisione binaria non sempre sono stati bene accolti. Colasurdo ricorda un acceso confronto con un abate che ebbe da ridire contro le celebrazioni del popolo della Schiavona. Era il 2002. In risposta fu organizzato il primo «Femminiello pride» della storia. «Masculill’ e femminell’, annanz’ all’uoccchie tuoie simm tutt’ figlie belle», intona una delle strofe/ fronne della tammurriata che Colasurdo solitamente dedica alla Madonna. «Il “cantatore” è un sacerdote laico. Inutile puntare il dito contro la diversità. Non c’è uomo che non sia anche donna e non c’è donna che non sia uomo. Questo credo io. Sono testimone delle trasformazioni subite dai miei concittadini: dai ritmi naturali della terra alla catena di montaggio. Siamo diventati “tecnografi”, ma è sempre meglio ‘na tammurriata, ca ‘na guerra». Così dice Marcello Colasurdo. È di questi giorni la notizia che, oltre a Pomigliano d’Arco, sempre più amministrazioni dei paesi irpini stanno aderendo alla richiesta promossa dalla seconda municipalità di Napoli affinché il maestro possa godere della Legge Bacchelli. Intanto si sta rimettendo, e non vede l’ora di tornare.

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