INTERNAZIONALE

Dalla guerra nel Tigray al conflitto in Oromia, il Paese non trova pace

UN MILIONE IN FUGA SECONDO L’ONU
FABRIZIO FLORISetiopia/Tigray

La situazione dei conflitti in Etiopia è in miglioramento dopo la firma degli accordi di pace avvenuta lo scorso novembre in Sudafrica tra il governo etiope e i ribelli del Tigray, ma l'attuazione degli accordi di pace è carica di sfide politiche e di sicurezza.
Dopo due anni di guerra i contendenti hanno firmato un accordo per una pace duratura centrato su una cessazione permanente delle ostilità e l’avvio un processo di transizione in vista di nuove elezioni nello stato regionale del Tigray. L’accordo prevede il disarmo delle forze tigrine e contemporaneamente il ritiro dal territorio del Tigray dell’esercito eritreo e delle milizie amhara, ma secondo Tesfaselassie Medhin, vescovo dell’eparchia cattolica di Adigrat «non è ancora finita, molti dei nostri fedeli sono ancora sotto assedio da parte di forze straniere». Tuttavia, sembra solo questione di tempo perché in altre aree del Tigray, come riferito alla Bbc da testimoni sul campo, i soldati eritrei si starebbero ritirando in modo significativo e anche fonti in Eritrea confermano il ritiro massiccio di truppe e materiale bellico.
L'ESERCITO DI LIBERAZIONE Oromo (Ola) nel frattempo avrebbe ucciso solo sabato scorso almeno 25 militari delle forze di sicurezza in un attacco nello stato nord-occidentale di Amhara. La Commissione etiope per i diritti umani (Hrc) afferma che centinaia di persone sono state uccise in «modo raccapricciante» negli ultimi cinque mesi in Oromia, mentre secondo le Nazioni unite quasi un milione di persone sono state costrette a lasciare le loro case. I ribelli sono anche accusati di aver ucciso centinaia di civili - molti dei quali contadini - del gruppo etnico Amhara. Come conseguenza c’è stato l’ingresso in Oromia di milizie Amhara-Fano anch’esse accusate di aver commesso violenze e atrocità. Gli Amhara negano che i Fano siano entrati in Oromia anzi sostengono che le loro milizie siano state addestrate dal governo di Oromia per difendere le loro comunità dopo quattro anni di attacchi da parte dell'Ola.
LA VIOLENZA IN ETIOPIA quindi non è terminata, ma si è spostata e intensificata nella regione di Oromia, considerata, attualmente, la zona più instabile del Paese. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite per gli Affari umanitari (Ocha), la situazione si sta rapidamente deteriorando, centinaia di migliaia di civili sono in fuga e i servizi essenziali non funzionano in alcune zone. Cresce il numero di persone costrette a fuggire nella vicina regione Amhara: «La situazione della sicurezza nella regione di Oromia rimane altamente instabile con conseguenze umanitarie devastanti. Centinaia di migliaia di persone continuano ad essere sradicate dalle loro fattorie. Gli sfollati rimangono in gran parte senza assistenza a causa delle difficoltà di accesso e vivono in condizioni deplorevoli senza un riparo adeguato».
IN TUTTA LA REGIONE crescono i livelli di malnutrizione sia a causa della siccità degli ultimi anni che dei conflitti. Sempre secondo Ocha «i ricoveri per malnutrizione acuta grave nelle zone di Arsi, Bale, Borena, East Bale, Guji e West Guji sono aumentati di oltre il 40% nella prima settimana di gennaio rispetto a novembre dello scorso anno. Il sostegno alimentare e nutrizionale è in corso, sebbene inadeguato». La signora Kabelle Boru racconta che «la siccità rende tutto difficile, dopo che abbiamo perso il bestiame,non ho potuto nutrire adeguatamente mio figlio. Solo Dio sa cosa accadrà dopo».
L’IMPEGNO è quindi, da un lato, di rafforzare l’assistenza umanitaria sia da parte del governo che delle agenzie internazionali, dall’altro di trovare soluzioni anche al conflitto nella regione di Oromia. Un gruppo di deputati regionali ha scritto al governo chiedendo un accordo di pace simile a quello del Tigray. Secondo Buzayehu Degefa, uno dei deputati firmatari, la situazione non può essere risolta militarmente: «Il governo conduce operazioni militari da tre o quattro anni e ancora non c'è soluzione. Ecco perché serve un altro piano: chiediamo un accordo di pace mediato da una terza parte come l'Unione africana».

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