COMMENTO

La scelta delle armi a senso unico porta in un vicolo cieco

Guerra o pace
FRANCESCO VIGNARCAUCRAINA/ITALIA/ROMA

In queste ore la Camera sta discutendo sulla conversione del decreto-legge governativo di dicembre che proroga l'autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina.
Un dibattito che non dovrebbe portare novità di rilievo: il consenso politico è ampio e il governo Meloni ha deciso di allinearsi alla linea seguita da Draghi fin dai primi mesi di guerra. Bloccando il Parlamento in sterili discussioni generiche (più di posizionamento mediatico-politico) e privandolo di un vero ruolo di controllo, con il meccanismo di «secretazione» del decreto interministeriale che individua i sistemi d’arma da inviare a Kiev. Il dibattito parlamentare e politico italiano si colloca in una situazione apparentemente tesa a livello di schermaglie mediatiche (o sui social) in particolare per l’approccio non ancora formalizzato della Germania sull’invio (diretto o indiretto) dei carri armati Leopard. Ma in realtà dopo il summit di Ramstein la strada pare chiaramente tracciata.
Washington ha annunciato nuovi aiuti militari per diversi miliardi, mentre il Consiglio degli Esteri Ue ha deciso una nuova tranche di 500 milioni per la cosiddetta «Peace Facility» (in realtà lo strumento che copre finanziariamente l’invio di armi) che sale dunque a 3,6 miliardi di euro complessivi. Il che porterà ad un aumento quantitativo, oltre che qualitativo, dei sistemi d’arma che arriveranno nei prossimi mesi nella disponibilità di Kiev. E che ci porta anche ad una valutazione dei costi per l’Italia: prima di queste ultime decisioni come Osservatorio Mil€x lo stimavamo in almeno 485 milioni, mentre di recente il ministro degli Esteri Tajani ha parlato di «circa un miliardo» di forniture (anche se non è chiaro se si riferisca al costo diretto o al controvalore di magazzino).
Chiunque non si cibi solo della retorica interessata di chi magnifica l’importanza della guerra standone bene a distanza (tranne quando deve incassare vantaggi) non può che trarre gravi preoccupazioni da questa situazione.
Da un lato non è chiaro come l’ennesima fornitura militare definita «cruciale» possa avvicinare la fine di un confitto in cui l’aggressore verso cui si sta facendo fronte comune è stato dato per spacciato già troppe volte. E la cui leadership sempre più pericolosamente utilizza minacce nucleari come strumento di ricatto «mafioso» (d’altronde “war is a racket”, scriveva giustamente il generale Butler…).
Dall’altro non è nemmeno chiaro come questo seguire quasi pedissequamente la strategia di Washington (e quando anche timidamente una voce esce dal coro l’attacco a più livelli è pesante, come per Scholz) possa prefigurare una qualche prospettiva positiva per l’Unione europea, anche solo dal punto di vista «di potenza» (militare e politica), tralasciando approcci di pace. Diversamente dalle inconsistenti e strumentali retoriche spese a piene mani, l’Europa sta uscendo a pezzi a seguito del primo anno di invasione russa dell’Ucraina. Gli elementi costitutivi dell’Unione vengono tralasciati e dimenticati, solo andando a traino dei pochi timidi tentativi diplomatici, mentre dalle parti di Bruxelles sono stati solo capaci di mettere soldi a disposizione dell’industria delle armi. Un comparto, quello militare-industriale, che fin dal principio dell’invasione ha visto crescere le proprie aspettative di alto guadagno - lo dimostrano gli aumenti in borsa addirittura precedenti al 24 febbraio scorso - soprattutto per i giganti di oltre Atlantico. Una recente stima colloca in circa 22 miliardi di dollari il possibile aumento di vendite di armi statunitensi ai partner Nato come semplice effetto della necessità di mettere stock a magazzino dopo l’invio di aiuti armati a Kiev.
Se invece vogliamo tornare a quello che conta davvero, cioè alla vita e alla prospettiva di futuro delle popolazioni e comunità in Ucraina e di tutti gli altri luoghi del mondo in guerra, bisognerebbe smetterla di banalizzare ogni decisione come se si stesse solo asetticamente giocando ad un Risiko globale.
Si potrà forse discutere all’infinito del ruolo delle forniture di armi nei mesi scorsi, ma ciò che è drammaticamente chiaro è la loro inefficacia nell’aiutare a risolvere il conflitto in una direzione di pace reale.
Perché - è altrettanto chiaro - sono stati sempre deboli, superficiali, interessati i (pochi) tentativi di costruzione di un percorso diplomatico che curi l’insicurezza globale che è la motivazione primaria e di base anche di questa guerra. Percorsi diplomatici invece vanamente invocati da popolazioni e società civili.
Clemenceau diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari. Il problema è che la pace è ancora più seria ed importante per lasciarla in mano a decisori politici che vedono le armi come unica soluzione.
* Coordinatore Campagne - Rete Italiana Pace e Disarmo

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it