INTERNAZIONALE

La rotta del demonio allontana il paradiso

SIMONE FERRARIcolombia/Yaviza (Panama)

«Questa selva è la rotta del demonio. Anzi, è il demonio in persona. Ma se cadi nel fango, c’è sempre qualcuno che ti tira su. Per 50 dollari». Quando parla del Darién, Timoteo lascia cadere lo sguardo a terra. Ha 24 anni ed è uno dei tanti afrocolombiani arrivati giovanissimi a Panama per fuggire dal conflitto armato. È cresciuto in una comunità embera nella giungla panamense, dove lo chiamano el indio negro.
CASA SUA GALLEGGIA sulle sponde del Chucunaque: uno dei tanti fiumi che irrompono nella selva del Darién con l’impeto di un oceano: «Da qualche anno, periodicamente il Chucunaque ci consegna dei cadaveri». Sono corpi di migranti, provenienti da tutto il mondo e diretti verso gli Stati uniti, divorati dalle intemperie della selva. Spesso sono altri migranti a recuperarli. Li seppelliscono in cimiteri improvvisati lungo il cammino.
Altrimenti ci pensa la polizia di frontiera panamense, che in questa regione ha due compiti: dare la caccia ai migranti o recuperarne i corpi, imbalsamati nel fango. «Pochi giorni fa ne hanno trovato uno a pochi metri da qui. Il fiume gli aveva portato via tutto. Ignoriamo chi fosse, da dove veniva, con chi viaggiava», racconta Timoteo, una delle tante persone che provano ad assistere i migranti arrivati a Yaviza dopo aver affrontato i pericoli della selva e del paramilitarismo.
Yaviza è l’ultimo villaggio dell’America Centrale raggiungibile via terra provenendo dagli Usa. La celebre rotta panamericana, che dall’Alaska si estende tra i deserti messicani con l’ambizione di arrivare in Patagonia, incontra un’ineludibile interruzione nella foresta del Darién: una frontiera naturale che rende impenetrabili con mezzi di superficie i 266 km di confine terrestre tra Panama e Colombia.
È PERÒ IN DIREZIONE CONTRARIA, entrando dalla Colombia, che la densità della foresta lascia spazio ad alcuni sentieri frastagliati e impervi, percorribili solo a piedi, in 10 giorni di cammino. Negli ultimi anni, la selva del Darién si è trasformata in un disperato corridoio di speranza per chi sogna gli Stati uniti. Oltre 200mila persone l’hanno attraversata nel 2022. Nei picchi di ottobre, quasi 2.000 persone al giorno. Un quinto di loro sono bambini. Più della metà arrivano dal Venezuela. Decine di migliaia dall’Ecuador e da Haiti.
Tanti altri fuggono da conflitti e ferite imperialiste ben più lontane: Eritrea, Senegal, Angola. Ma anche Siria, Afghanistan, Nepal. Atterrano in Brasile o in Ecuador, dove gli accordi internazionali con diversi paesi africani e asiatici permettono di accedere senza necessità di visto. Si dirigono via terra fino al Nord della Colombia, a Necoclí, dove la tragedia umanitaria del Darién trova le sue radici.
NECOCLÍ È UN VILLAGGIO di pescatori incastonato nel golfo caraibico dell’Urabà, culla del narcoparamilitarismo colombiano. Da oltre due decenni è il Clan del golfo a mantenere il controllo della regione, dopo aver spodestato negli anni Novanta la guerriglia delle Farc in uno degli scontri più feroci del conflitto colombiano. Sono loro a stabilire dove e quando i migranti possono imbarcarsi verso Capurganá, porta d’ingresso del Darién.
Nelle poche strade di Necoclí si ascoltano decine di lingue. Una piccola Babele in cui i commercianti si sono rapidamente adattati alle esigenze dei viaggiatori di passaggio: vendono tende, scarpe, cucine da campeggio, prodotti antizanzare. Tutto l’indispensabile per sfidare una delle giungle più dense del mondo. Sull’imbrunire, mentre un gruppo di giovani afgani si gode alcune ore di mare caraibico prima della traversata, una famiglia ecuadoriana cerca un albergo per riposare fino all’alba, quando raggiungeranno in motoscafo Capurganá. Raccontano: «Abbiamo visto decine di video di persone che hanno attraversato il Darién. L’hanno fatto loro, possiamo farcela anche noi».
LA TAPPA SUCCESSIVA, Capurganá, condensa tutte le contraddizioni della regione. Costeggiando il mare cristallino del golfo, alcuni turisti europei vengono accompagnati da guide locali a visitare La Miel, Panama. Attraversano la frontiera in mezz’ora di cammino, su una scalinata di sabbia. A poche centinaia di metri, presso il molo del villaggio, migliaia di migranti sono ricevuti dai coyotes: altre guide locali, che si occupano però di chi non ha un passaporto valido per entrare legalmente a Panama. Affiliati al Clan del Golfo, i coyotes stabiliscono quale rotta dovrà intraprendere ogni migrante. Chi può pagare (almeno) 500 dollari ha diritto al viaggio "express": qualche ora di motoscafo al largo della frontiera che riduce a un paio di giorni la durata del cammino nella selva prima di raggiungere Lajas Blancas, primo centro abitato panamense.
Chi ha meno soldi a disposizione è costretto al tragitto più lungo e periglioso: dieci giorni di cammino tra le montagne fangose del Darién. Chi accompagna i migranti difficilmente si fa scrupoli: se una persona cade nel fango con le valigie, i coyotes chiedono fino a 50 dollari per aiutarla ad alzarsi. Una cifra anche più alta è pretesa per aiutare i migranti ad attraversare i frondosi fiumi della selva, uno dei pericoli maggiori del Darién: se pagano, vengono portati in spalla.
LE PERSONE PIÙ ANZIANE o malate spesso non reggono la fatica del viaggio, e scelgono di tornare indietro, affidando i loro figli ai coyotes. Alcuni migranti denunciano che le guide scelgono appositamente tragitti più impegnativi, per poter poi vendere loro più acqua e cibo. Altri raccontano che le guide li abbandonano a metà strada, lasciandoli dispersi nella giungla, soprattutto nel versante panamense. Poco più della metà del tragitto, infatti, si realizza in territorio colombiano, sotto la vigilanza del Clan del Golfo. Una volta superata la frontiera, paradossalmente, i rischi aumentano. Soprattutto per le migranti. I coyotes consegnano i "clienti" a guide panamensi, che si accordano con gruppi di criminali comuni per derubare e violentare le donne.
Lo racconta nel dettaglio un volontario di Msf, da tempo attivi a Metetí, dove sorge uno dei tre centri di ricezione dei migranti di Panama: «Registriamo un caso di violenza sessuale al giorno. Spesso avvengono negli stessi punti, dove gli aggressori sanno che le persone si fermano a dormire». Aggiunge: «I migranti arrivano in condizioni di salute disperate. Nelle salite della selva devono lasciare indietro le cose pesanti, tra cui le bottiglie, e sono poi obbligati a bere acqua del fiume. Arrivano intossicati e con gravi problemi alla pelle. Alcuni muoiono per il veleno dei serpenti, o per le piene nella stagione delle piogge. Altri perché derubati delle medicine».
DOPO ALCUNI GIORNI DI RECUPERO nel centro di prima accoglienza, i migranti vengono obbligati dalle autorità panamensi a dirigersi in Costa Rica, tramite bus governativi da 40 dollari a biglietto. Tanti di loro, derubati nella foresta, sono costretti a farsi inviare soldi dai parenti nei loro paesi di origine. Superato l’inferno del Darién, si preparano a un’altra traversata, altrettanto dolorosa ed estenuante: le due frontiere del Messico.
A pochi chilometri, nella piazza centrale di Yaviza, nel sud di Panama, dove Timoteo dà assistenza ai migranti in viaggio, risalta una scritta incisa sul legno, dolorosa e beffarda: «La natura non fa nulla invano». Gli Stati uniti sono ancora lontani.

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