CULTURA

Biblioteche di comunità coreane e piazze del sapere

Express
MARIA TERESA CARBONEcorea

Ci sono argomenti dei quali, al di fuori della cerchia delle persone direttamente coinvolte, si parla poco e male. Esemplare è il caso della scuola, sebbene tra studenti, insegnanti e personale amministrativo, siano poche le famiglie italiane che in un modo o nell’altro non hanno a che fare con banchi, cattedre e pagelle.
Eppure, sui media generalisti, tranne poche felici eccezioni, la scuola è solo un catalizzatore di piccoli e grandi mugugni o di polemiche destinate a sfiatarsi rapidamente – vedi quella sul merito, sulle prime pagine per un paio di giorni a fine ottobre e poi scomparsa nell’indifferenza generale.
E se la scuola non è «cool» agli occhi di chi fa informazione, figurarsi le biblioteche. Delle «piazze del sapere», come le ha definite Antonella Agnoli in un libro edito da Laterza nel 2009, non si parla proprio, nonostante ci sia molto da dire sul modo in cui (non sempre) fanno rete e sulla loro (altalenante) accessibilità. Da questo punto di vista, però, il tanto famoso quanto sconosciuto Pnrr porterà effetti benefici perché una voce di spesa non irrilevante è destinata alla «rimozione delle barriere fisiche e cognitive» nelle biblioteche, oltre che nei musei e negli archivi. (E per limitarci solo a Roma, sempre grazie al Pnrr nella capitale è prevista a breve l’apertura di una decina di nuove biblioteche, o «poli civici culturali e di innovazione» che dir si voglia).
Intanto, nell’attesa che le belle promesse si avverino, a chi delle biblioteche continua ad avere un’immagine stereotipata, di luoghi dove domina il silenzio e la polvere si annida negli angoli, consigliamo la lettura di un reportage sulle biblioteche di comunità in Corea, pubblicato su «Publishers’ Weekly» a firma di R. David Lankes, docente di biblioteconomia alla University of Texas di Austin.
Certo, ancora oggi le sale destinate alla lettura mantengono la quiete necessaria per favorire la concentrazione. Ma a seconda delle comunità in cui sono inserite, le biblioteche possono anche assumere aspetti molto diversi, scrive Lankes sulla base di anni trascorsi a contatto con bibliotecari in tutto il pianeta: «un laboratorio in un piccolo quartiere di New York; una rete di mense alimentari in Canada; studi di registrazione nei Paesi Bassi; risorse portate a dorso di cammello in tribù remote del Kenya…».
Quanto alla Corea (del Sud, si intende), sembra che alla base delle biblioteche di comunità ci sia proprio l’idea di una «piazza del sapere», di un luogo, cioè, di incontro per gli abitanti. Scrive Lankes: «Prendiamo ad esempio la biblioteca del villaggio di Gusan-dong, creata grazie all’azione sociale dei cittadini. I membri della comunità (molti dei quali madri single) hanno presentato una petizione al governo locale per creare la biblioteca. I cittadini della zona hanno poi dato vita a un seminario per pianificarla attraverso incontri, conferenze di relatori invitati da fuori e letture condivise. La biblioteca stessa è stata costruita a partire da edifici preesistenti, non più alti e non più grandi degli appartamenti circostanti, conservando le impronte delle case originarie». Al posto degli spazi residenziali, però, ora ci sono i libri e la gestione è collettiva.
Da parte sua la biblioteca di Neutinamu, direttamente finanziata e amministrata dalla comunità, la sera si trasforma, grazie a un sistema di scaffalature mobili, in uno spazio di dibattito per i cittadini, mentre gli ultimi due piani della biblioteca di Mapo, alla periferia di Seul, sono dedicate alle pratiche artistiche. E gli esempi, tutti diversi, continuano. Ma Lankes avverte: «Attenzione: queste biblioteche non si possono replicare, funzionano perché a crearle sono state le loro comunità».

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