VISIONI

L’azione artistica tra natura poetica e critica radicale

Morto a 98 anni, gli esordi dopo un viaggio a Parigi e New York
GIUSEPPE FRANGIITALIA

Impossibile ricordare Gianfranco Baruchello senza che il pensiero vada a quella sua meravigliosa utopia dell’Agricola Cornelia (di cui si parla in altra parte in questa pagina). Impossibile non ricordare quell’impeto un po’ folle con cui voleva coltivare l’idea di mettersi di traverso allo sviluppo che si stava mangiando la sua città adottiva di cui sempre più si sentiva figlio. Un vero gesto di antagonismo poetico nella Roma che Pasolini sentiva drammaticamente svanire davanti ai suoi occhi in quegli inizi anni ’70. «Bene, la mia idea allora era che tutto questo sarebbe stato arte, arte e non economia, che l’arte sarebbe potuta divenire un esempio indicativo nella soddisfazione della fame come bisogno umano su base puramente umana, non più legata allo sfruttamento e che alla fine ci sarebbero state tante patate da poterle regalare a tutti», aveva spiegato Baruchello raccontando quell’esperienza ad anni di distanza. Arte come soddisfazione di bisogni primari, «patate» che si sarebbero potute regalare a tutti, arte, dunque, come utopia, azione politica e poetica allo stesso tempo. Arte anche come impresa nel senso pieno del termine, grazie a quel piglio imprenditoriale che aveva ereditato dal padre, figura importante e guardata da lui sempre con grande fascino.
ERA NATO A LIVORNO nel 1924, Baruchello e era si laureato in legge e avviandosi, non a caso, a una brillante carriera aziendale. Un viaggio prima a Parigi e poi a New York aveva rappresentato per lui come una folgorazione, che metteva a nudo quel che non funzionava nella vita condotta fino ad allora: in Francia conosce l’artista cileno Sebastian Matta e il poeta Alain Jouffroy, a Manhattan incontra Marcel Duchamp e John Cage. Decide di dedicarsi all’arte passando per gli studi di Wittgenstein e della filosofia del linguaggio. E dà il via ad un viaggio originalissimo che presto si sarebbe liberato anche delle suggestioni dell’espressionismo astratto americano. La linea direttrice è da subito chiara, fin dai primi anni ’60: mettere la sua natura poetica a servizio di una critica anche radicale delle strutture codificate della società. Non lo fa mai però con strumenti forti, o cercando la retorica dello scontro frontale. Mette in gioco strumenti leggeri, a tratti quasi impalpabili, che però dal di dentro dell’azione artistica dissestano gli equilibri. Agisce con una pittura di accostamenti materici e soluzioni espressive atipiche, sempre in dialogo con una dimensione onirica: quasi un percorso per puntare ad un grado zero del linguaggio dell’arte.
PIÙ CHE «PITTURA» tante sue opere sembrano sempre esiti di happening artistici. Come lo sono tutte le altre avventure intraprese facendo leva soprattutto sullo strumento cinematografico. Ha un’impronta mitologica per esempio quel suo film Verifica incerta (Disperse Exclamatory Phase), realizzato nel 1964 in collaborazione con Alberto Grifi. Lo aveva composto recuperando 150.000 metri di pellicola di scarto del cinema commerciale americano degli anni ’50 e ’60. Da quel materiale aveva ricavato un montaggio incollando gli spezzoni di pellicola con il nastro adesivo: un massacro cinematografico di film hollywoodiani, rimontati pensando al Dada, era stato definito. Era stato Marcel Duchamp a battezzarne la prima alla Cinematéque Française a Parigi nel 1965; John Cage lo aveva poi portato al Moma di New York, entusiasta della colonna sonora creata da Baruchello.n
È proprio la poetica del «montaggio» a far da filo conduttore di tutta l’opera di Baruchello. Una poetica che gli ha permesso di avvalersi di materie e simboli anche completamenti dissonanti, quando organizzava le sue bacheche e i suoi archivi visivi dove convivono e si articolano tra di loro oggetti fisici e forme segniche. Nello spazio asettico di una scatola prendono così i vita i suoi itinerari labirintici, con quei minuscoli disegni dal tratto nero e secco, con le scritte minute che navigano libere negli spazi destinati.
COME LO AVEVAMO VISTO fare nel caso dell’Agricola Cornelia Baruchello si attrezza sempre per attraversare i territori dell’utopia e dell’immaginazione, e per documentare i percorsi dell’anima e della mente. Lo fa con scelte pubbliche oppure con questi suoi codici cifrati. Anche l’ultimo suo lavoro che lo ha visto impegnato su un’opera di dimensioni per lui non consuete va in questa direzione. È Psicoenciclopedia realizzata per la Treccani: un grande libro d’artista che racchiude un inaspettato e articolato sistema di relazioni: in 816 pagine comprende più di 1200 voci ordinate alfabeticamente. Le voci derivano da scritti editi e inediti, appunti e trascrizioni di sogni di Baruchello, mentre le immagini sono il risultato di un lungo lavoro di riorganizzazione di materiali preesistenti. Quel prefisso «psico» ha un significato che riassume tutta la sua storia: mettere al centro il nesso tra la tensione verso la conoscenza e l’infinita gamma di sensibilità che definiscono l’immaginario delle persone.

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