VISIONI

Quelli che un tempo conoscevano Shakespeare

Habemus Corpus
MARIANGELA MIANITIGB

Che dura vita deve essere quella di fratello minore di un futuro re. Quanto deve essere mal consigliato, Harry dei Windsor, se, per realizzarsi, dopo aver rinunciato al titolo di sua altezza reale, essere migrato oltre oceano con la moglie, ha deciso di scavare nei propri fantasmi spandendoli in serie tivù e libri dove ne dice di tutti i colori sui parenti serpenti, e giù a lavare i panni sporchi sulla pubblica piazza, monetizzando su ogni dichiarazione, ogni lacrima, ogni lamento.

Un tempo, al di là della Manica, i grovigli di potere che si portavano dietro sete di sangue, follia, omicidi, teste tagliate erano messi in scena da uno che si chiamava William Shakespeare e che ha rappresentato così bene e nel profondo quel coacervo di odi e legami che ancora oggi lo si legge e ascolta come attualissimo. Nel contemporaneo, nemmeno la rappresentazione dei rancori ha più la dignità di un grande dramma. Tutto si riduce a una poltiglia di rivelazioni autocommiseranti, tipo quei bambini che, dopo aver litigato con un fratello, chiamano la mamma e le dicono, frignando, «Ahhh, lui mi ha fatto la bua».
Mi è bastato vedere una puntata della serie Harry & Megan, su Netflix, per mollarla e decidere che non avrei letto Spare, il libro uscito oggi in tutto il mondo in cui il principe Harry accusa il fratello William e la moglie e la corte inglese di varie nefandezze e di non averlo mai amato o capito. Zuccherosa, autoassolvente, autocelebrativa, e per tutto ciò noiosissima, la serie tivù ha confermato un sospetto, ovvero che all’immaginario collettivo si dà in pasto cibo sempre più scadente.
Non sono tanto le vicende personali di Harry a farci dire, a un certo punto, Macchisseneimporta. Le incomprensioni e le infelicità familiari sono state e saranno sempre un motore fondamentale delle narrazioni, sia che i protagonisti siano teste coronate, poveri macilenti o borghesi piccolo/medi. Date queste attenuanti, il principe deve aver confuso il senso dello svelamento con quello del ridicolo se ha sentito il bisogno di elevare a notizia il fatto che rischiò di congelarsi il pene durante un’escursione al Polo Nord, o che si rese conto che il fratello era cambiato quando vide che era più calvo di lui. Tutto si può raccontare, a una condizione, che si sappia farlo. Sia nell’arte, che nello spettacolo che nella letteratura sono la forma e il linguaggio a distinguere ciò che scava nel profondo da ciò che riduce i dolori in piagnistei, i personaggi dalle macchiette, i grovigli relazionali dalle ripicche, i drammi dai pettegolezzi.

Oh tu, Bardo, in quali brughiere sei stato smarrito, in quali scaffali della real educazione scolastica sei stato relegato, in quale stanza di quale palazzo stuccato ti hanno dimenticato? Portateli a vedere Re Lear, questi ragazzi, dateli in pasto a Il mercante di Venezia e alle sue libbre di carne, fateli sprofondare nelle mani macchiate di sangue di Lady Macbeth, fategli leggere, per esempio, la scena seconda dell’Atto secondo di Antonio e Cleopatra dove Enobarbo dice ad Antonio: «…avrete tempo di litigare quando non avrete altro da fare». E Antonio: «Tu non sei che un soldato: taci». Ed Enobarbo: «Avevo quasi dimenticato che la verità deve saper tacere». E Antonio: «Voi mancate di rispetto a questa riunione; perciò state muto». Ed Enobarbo: «Continuate dunque; sarò il vostro sasso riflessivo».
E il sasso riflessivo tradirà, si pentirà, invocherà la morte dicendo: «Oh sovrana signora della profonda malinconia, irrora su di me l’avvelenato umidore della notte…».
Che siderale distanza, dai peni congelati.

mariangela.mianiti@gmail.com

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