CULTURA

Gormenghast, il regno labirintico dei poteri

La trilogia completa di Mervyn Peake presso Adelphi
LUCA SCARLINIgb

Nel 1946 la Gran Bretagna usciva dal conflitto sanguinoso, era a pezzi. A Londra le persone si aggiravano per la città in macerie, con tessere annonarie e restrizioni di ogni tipo. Nel 1946 uscirono Ladri nella notte di Arthur Koestler, che narrava la sua esperienza in un kibbutz in Israele e l’avvincente Oggi e allora di Somerset Maugham, che sceglieva come protagonista Niccolò Machiavelli per una cupa storia rinascimentale.
NELLO STESSO ANNO comparve in libreria Titus Groan, un fantastico romanzo di Mervyn Peake, più noto come illustratore di grande smalto (memorabile il suo The Hunting of the Snark di Lewis Carroll), che aveva iniziato a scrivere nel 1921, a dieci anni, una curiosa prosa The White Chief of the Unzimbooboo Kaffirs, che rivisitava l’avventuroso viaggio dei genitori, missionari in Cina, rientrati nella madrepatria dopo un lungo viaggio con la Transiberiana. I luoghi in cui aveva trascorso l’infanzia in Cina, nella regione di Kuling, dove era nato, rimasero il punto di riferimento della sua immaginazione narrante, con i loro castelli, muraglie, boschi impenetrabili. Ora Adelphi, che da lunghi anni (per la precisione dal 1981) vanta una lunga fedeltà a Peake manda in libreria la Trilogia completa nelle traduzioni brillanti di Anna Ravano (Tito di Gormenghast) e Roberto Serrai (Gormenghast e Via da Gormenghast) (pp. 1170, euro 28), illustrata dai disegni in bianco e nero dell’autore, che puntualizzano ambienti e personaggi.
I ROMANZI SEGUENTI uscirono nel 1950 e nel 1959, quando l’autore era già malato di una forma di demenza, che lo afflisse negli ultimi anni della sua esistenza fino alla scomparsa nel 1968. La prosa dello scrittore propende alla poesia epica e in questa dimensione si muove anche la notevole lirica di Londra sotto i bombardamenti La ballata della bomba, curata da Zaccuri per Iperborea nel 2001.
Anthony Burgess nella presentazione insiste sul forte legame con le antiche epopee nazionali britanniche, come il poema gallese del Mabinogion e puntualizza come la prima puntata delle avventure di Tito nel micidiale castello-labirinto del suo potere ebbe da subito seguito di critica, con ammirati commenti di celebri recensori, ma limitato seguito di pubblico, che invece accrebbe negli anni seguenti, fino a fare di quest’opera un libro di culto nel mondo anglosassone negli anni ’70.
IL PRIMO EPISODIO del libro definisce esattamente gli ambienti del reame del duca Sepulcrio (i nomi sono sempre determinanti nella definizione dei personaggi) che ha da gioire perché, a molti anni di distanza dalla nascita della rampolla Fucsia, ha visto l’arrivo di Tito, che ha strani occhi viola, e suscita inquietudini nel medico di corte, che cerca di indorare la pillola al suo signore. Come nel palazzo del principe Amleto i muri hanno orecchie: continuamente entrano e escono personaggi da porte, passaggi e pertugi che hanno modo di ascoltare quello che non dovrebbero e non potrebbero. Nella cucina unta di grasso e ripugnante del gran cuoco Sugna si celebra un fasto gastronomico ributtante, che celebra il nuovo nato, di cui dà ansiosamente notizia il magro cortigiano Lisca, che nella scena di apertura si reca, fatto eccezionale, a disturbare il bibliotecario Stoccafisso. Lui, custode delle sculture radiose, vive, tolti i suoi pochi doveri quotidiani in uno spazio non frequentato da nessuno, dondolandosi sopra un’amaca.
Capitolo dopo capitolo si palesano i personaggi della saga: resta in mente l’apparizione gotica della duchessa, che vive in un letto imponente, indossa un mantello di gatti bianchi, e ha la capigliatura abitata da corvi. Una immagine che svela una origine letteraria esatta in Charles Dickens nella memorabile immagine di Miss Havisham in Grandi speranze, abbandonata il giorno delle nozze e rimasta per sempre vittima di quella cerimonia incompiuta (il film di David Lean, peraltro, uscì proprio nel 1946).
GORMENGHAST è quindi un regno dell’immutabilità, su cui si deposita la polvere, ma nei meandri della sua labirintica struttura giunge il violento araldo del cambiamento. Ferraguzzo già nel nome ha il suo destino. In lui è la violenza che distruggerà il precario equilibrio del maniero: a lui il compito di aggredire Sugna, di cui è sguattero, di uccidere il bibliotecario Stoccafisso e di distruggere i tesori che tutelava. Tito, in questo mondo sovraccarico di segni e simboli cresce in un sentimento di inquietudine costante, fino all’abbandono del luogo nativo ormai in rovina.
In Italia l’epica di Tito è stata apparentata a Il signore degli anelli (che iniziò la sua uscita nel 1954), ma il suo tono è molto diverso, più amaro. Come sottolinea felicemente Burgess incisiva è la capacità di Peake di rendere tridimensionali le sue visioni, in cui risuona, acre, la memoria del conflitto da poco compiuto, in una sequenza di scontri insensati e violenti, che scuotono l’eterno torpore del gotico maniero, che nella edizione attuale Adelphi è illustrato da un visionario disegno di Victor Hugo.

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