POLITICA

«Esasperati»: gli operai di Taranto preparano la protesta sotto palazzo Chigi

EX ILVA. FIOM, UILM E USB DOMANI INCONTRANO LE ISTITUZIONI LOCALI: «VENGANO CON NOI»
MASSIMO FRANCHIitalia/taranto

Saranno i primi lavoratori a protestare sotto palazzo Chigi con inquilina Giorgia Meloni. Gli operai di Taranto di Acciaierie d’Italia stanno solo decidendo la data del loro - ennesimo - viaggio a Roma: dovrebbe essere attorno al 13 gennaio. L’esasperazione è però troppa e questa volta non si dirigeranno verso l’ex Mise diventato nel frattempo Mimi (ministero delle imprese e made in Italy, sic) ma punteranno direttamente verso la presidenza del consiglio.
Lo hanno deciso Fiom, Uilm e Usb nell’assemblea di fabbrica del 23 dicembre dopo l’ennesimo schiaffo preso in faccia da un governo e gli schiaffi veri presi da sindacalisti e lavoratori davanti i cancelli della sede aziendale, refrattaria a qualsiasi dialogo ormai da troppi mesi, nonostante il 40% del capitale sia in mani pubbliche. «Il ministro Urso e il governo Meloni hanno accettato il ricatto di Arcelor Mittal», spiega l’operaio Francesco Brigati, in prima fila nella lotta da un decennio e diventato ora segretario della Fiom di Taranto.
Il governo Meloni infatti ha scelto di finanziare i franco-indiani con un prestito-ponte di 650-680 milioni di euro e non con un aumento di capitale per portare la maggioranza a Invitalia, come doveva accadere già ad aprile scorso. Mentre i sindacati da mesi chiedono inascoltati che Invitalia salga al 60% con un aumento di capitale mentre già nel decreto Aiuti bis il governo Meloni aveva inserito un miliardo lasciando però la scelta dello strumento (prestito o aumento di capitale) alla stessa Invitalia.
«In questo modo il governo Meloni conferma di essere forte con i deboli - migranti, percettori del Reddito di cittadinanza, operai in cassa integrazione - e debole con i forti perché davanti a una multinazionale si è fatto ricattare. Non è certo "sovranista" come prometteva di essere in campagna elettorale», continua Brigati.
Domani sindacati e lavoratori saranno sotto la sede dell’autorità provinciale dove hanno convocato «tutte le istituzioni locali: sindaco di Taranto e comuni limitrofi, presidente della provincia e presidente della Regione». Il motivo è chiaro: «Noi a Roma ci andremo sicuro ma vogliamo capire se le istituzioni si prendono la responsabilità che spetta loro di rappresentare le istanze dei lavoratori e di tutto il territorio, per una situazione non più socialmente sostenibile».
Non solo dal punto di vista occupazionale se è vero, come è vero, che le mancanze di Arcelor Mittal stanno facendo rialzare i livelli di inquinamento a valori che non si registravano più da anni. Lo scorso 18 dicembre Peacelink ha denunciato «un picco di benzene nel quartiere Tamburi di 42 microgrammi a metro cubo» quando «il valore di soglia acuto è di 27 microgrammi».
Di chi sia la colpa è lampante: «L’azienda non fa più manutenzione ordinaria anche perché non paga più le ditte preposte da mesi e così le emissioni inquinanti aumentano. Ad esempio anche nella vasca della loppa dell’altoforno mancano le pompe», continua Brigati.
Ad agosto dovrebbe concludersi il piano ambientale: l’85% delle prescrizioni dell’Aia (autorizzazione integrata ambientale) sarebbero a regime, ma le inadempienze dell’azienda mettono a rischio la conseguente richiesta di dissequestro dell’area a caldo, chiusa dalla magistratura nel 2012.
La situazione è diventata insostenibile a causa del comportamento dell’ad Lucia Morselli. Un comportamento che ha causato l’allargamento della vertenza anche al migliaio di lavoratori e di padroncini delle aziende dell’appalto. E così per la prima volta anche l’indotto lotta assieme ai lavoratori diretti.
Lavoratori diretti che hanno vissuto un natale mai così problematico. La cassa integrazione per 2.500 addetti è in scadenza a marzo. A settembre, accordo del 2017 alla mano, 1.700 lavoratori ancora in capo all’amministrazione straordinaria ex Ilva dovrebbero essere riassunti. Mentre i 5.500 in teoria a pieno regime si vedono trasformare le ferie in giorni di cassa integrazione, così l’azienda paga meno stipendi.
Il tutto mentre il 2023 chiude col minimo storico di produzione: soli 3 milioni di tonnellate.

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