CULTURA

Mercato editoriale, una ferocia che miete vittime

Express
MARIA TERESA CARBONEUSA

Ed ecco un’altra rivista culturale che chiude negli Stati Uniti: la settimana scorsa è stato il turno della giovanissima Astra, la cui direttrice Nadja Spiegelman ha comunicato che il terzo numero non vedrà la luce, all’inizio di questa è arrivata la notizia del prematuro decesso di una testata ben più consolidata, Bookforum, che ha alle spalle quasi trent’anni di attività. Varata nel 1994, la rivista – scrivono sul New York Times Kate Dwyer e Elizabeth A. Harris – «ha annunciato lunedì che il suo numero attuale sarà l’ultimo, infliggendo un colpo significativo al giornalismo letterario, che negli ultimi anni ha subito una forte riduzione».
Un colpo significativo e, al di là delle frasi di circostanza («profondo dispiacere», «grande orgoglio», «immensa gratitudine»), inferto con una brutalità che lascia sconcertati anche gli osservatori più disincantati di fronte alla crescente ferocia del mercato editoriale. L’annuncio della chiusura è infatti arrivato meno di una settimana dopo l’acquisizione di Bookforum, insieme alla sua «sorella maggiore» Artforum, da parte di Penske Media Company, un gruppo con sede a Los Angeles e New York, che si dimostra vorace e implacabile nei suoi movimenti. Già proprietario di alcune delle testate americane più importanti nel campo dello spettacolo (solo per citare qualche nome: Billboard, Rolling Stone, Variety, The Hollywood Reporter), Penske Media da tempo ha dimostrato le sue intenzioni di occupare anche il redditizio territorio del giornalismo d’arte. E come rileva Dessi Gomez su The Wrap, con l’acquisizione di Artforum il gruppo oggi, «dopo l’acquisto di Art in America e ARTnews nel 2018, possiede le tre principali riviste cartacee» del settore.

In un contesto economico di questo tipo non erano necessarie capacità medianiche per capire che la sorte della letteraria Bookforum – cinque uscite l’anno, una circolazione ufficiale, forse un po’ gonfiata, di sessantamila copie – era segnata, nonostante l’interesse dei materiali proposti (fra l’altro una serie di interviste eccellenti, da Susan Sontag a Jhumpa Lahiri). «La concentrazione dei media sta distruggendo l’ecosfera delle lettere», ha commentato la scrittrice Lydia Kiesling, ed è tutto detto, o quasi.
In effetti, su questo sfondo cupo «l’ecosfera delle lettere» lascia intravedere sprazzi di caparbia vitalità, soprattutto in ambiti all’apparenza periferici: come la recente nascita del Journal of Tibetan Literature, «una nuova rivista interdisciplinare che trascende gli studi di genere e tenta di costruire ponti tra studiosi tibetani e occidentali», come lo descrive sul periodico Tricycle Frederick Ranallo-Higgins. Difficile che saranno in milioni a leggere la nuova rivista, ma è pur sempre un segnale di resistenza.
E poi, certo, ci sono i casi dove i marchingegni economici che regolano il mercato editoriale appaiono più evidenti, come la celebre lista dei libri più venduti negli Stati Uniti pubblicata ogni settimana dal New York Times e capace (almeno si pensa) di decretare il trionfo di un titolo negli Usa.
Il problema, scrive Sophie Vershbow su Esquire, è che la classifica si basa su una formula custodita gelosamente dal quotidiano americano – qualcosa di simile alla formula della Coca Cola, secondo Laurie McGrath, che tiene un corso sulla storia del best seller alla Temple University: «Abbiamo un’idea abbastanza precisa di ciò che contiene, ma non la quantità esatta di ogni ingrediente». Quello che è certo, è ancora McGrath a parlare, è che «la lista dei best seller rappresenta il modo in cui ragiona l’editoria: sono i dati di vendita a guidare le decisioni sull’acquisto e la promozione dei libri». Bella scoperta.

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