VISIONI

Saburo Teshigawara, come perdersi dentro una danza che si illumina

«ASSOLO» ALLA TRIENNALE MILANO
FRANCESCA PEDRONIITALIA/MILANO

Tenere la potenza emotiva e immaginifica della musica con un gesto. Due braccia aperte, arrotondate e in infinitesimale mormorio cinetico, un corpo tra gravità e aneliti verso lo spazio che ci circonda, uno stare tra la terra e il cielo, sentendo scorrere il tempo della vita. Saburo Teshigawara, con la partner di sempre, Rihoko Sato, ha portato in Italia il suo Adagio. Debutto italiano al Grande di Brescia, repliche esauritissime in Triennale Milano, dove lo abbiamo visto.
UN PEZZO che accoglie il pubblico con un respiro mai identico a se stesso, un perdersi dentro una danza che si illumina e si adombra per emersioni di tonalità e variazioni in chiaro-scuro. Un viaggio del movimento che si fonde con la musica senza farsi schiacciare dalla bellezza di otto adagi straordinari, ma accompagnandoci dentro la loro intimità.
Apre Rihoko Sato, in bianco, nella scena nera e vuota, sull’Adagio della Sinfonia n. 10 di Mahler che il compositore non riuscì a finire prima della morte. Un movimento di danza minimo, oscillazione quasi impercettibile che diffonde nell’aria una malinconia senza fine. Beethoven, Adagio molto espressivo dal Quartetto per archi n. 13. Teshigawara, come Rihoko in bianco. Prenderà lo spazio centrale, spostandosi a piccoli passi, un movimento nei polsi, nelle spalle, nelle mani: la melodia che si fa corpo, come se, attraverso la danza, la musica parlasse con se stessa tra contro-movimenti e sospensioni.
Aria dalla Suite n. 3 di Bach, torna Rihoko. Il flusso di movimento è circolare, un impulso che parte dalla cintura scapolare, linea morbida che si sposta nei fianchi per tornare a distendersi nelle braccia. Tocca ora al meraviglioso Adagio del Concerto per pianoforte n. 23 di Mozart. Ed è qui che Saburo, solo in scena, ha la capacità di riflettere sul pubblico il sentimento della musica con quelle braccia arrotondate e aperte come ad abbracciare l’universo.
SI FA BUIO. Torna Rihoko e traghetta lo spettatore nell’Adagietto dalla Quinta di Mahler. Andamento magnetico che vive di una tensione proiettata verso l’alto. La sala è trascinata nel fluire della danza e della musica, ma il culmine emotivo è l’ultimo assolo di Teshigawara. Nasce dall’unione dell’Adagio sostenuto del Concerto per pianoforte n. 2 in do minore di Rachmaninov con l’Adagio assai del Concerto per pianoforte in sol maggiore di Ravel. Ascoltiamo il flauto e il clarinetto nell’inizio dell’Adagio di Rachmaninov: Saburo si volta verso il pubblico, ancora un pianissimo nel movimento, come se la danza attendesse un risveglio. Prima che il moto esploda, quasi folle, insieme con la musica. Grandissimo Saburo che nel successivo Adagio di Ravel, fatto ripartire ben tre volte, a sorpresa si concede gesti (mai li abbiamo visti in lui così) quotidiani, una mano che asciuga il sudore dalla fronte, uno sguardo che è come un attimo di pausa con se stessi. Una vertigine d’umanità. Chiude Rihoko con l’Adagio dalla Sinfonia n. 8 di Bruckner, breve epilogo che stempera la scia emotiva lasciata da Teshigawara. Un pezzo che resterà nella memoria degli spettatori.

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