CULTURA

Cullandosi nella coda di una cometa

FRANCESCA MAFFIOLI giappone

«Nagori» in giapponese significa, come riporta il sottotitolo del libro, la nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato. Ryoko Sekiguchi, in Nagori (pp. 104, euro 15) spiega che l’etimologia del termine risale a «nami-nokori», che significa «traccia delle onde» e indica l’impronta che lasciano le vagues dopo essersi ritirate dalla battigia. Ma non solo il mare ha a che fare con nagori, anche la neve, quando persiste dopo l’inverno o cade in primavera. Pure la luna può essere in nagori, quando la sua faccia perlescente si intravede ancora all’alba. Nel testo, edito da Einaudi (recensito su Alias Domenica da Giorgio Amitrano il 10 luglio, ndr) nella traduzione a cura di Giampiero Massano, Ryoko Sekiguchi evoca il legame imprescindibile tra la stagionalità e la cultura giapponese. Sono proprio le stagioni infatti le cangianti protagoniste di questo affascinante testo: nella loro riconfortante ciclicità infatti, esse accompagnano la lingua giapponese nella sua forma poetica regina, l’haiku.
Nagori significa quella nostalgia per ciò che ci lascia o che lasciamo, e riguarda soprattutto le stagioni nei suoi caratteri rappresentativi (le foglie che cadono, la neve, i fiori, alcuni profumi), con il loro corteggio di colori, consistenze e emozioni. Per rivelarle Ryoko Sekiguchi, scrittrice e poeta giapponese di espressione francese, parte dalle specificità della cultura nipponica fino a spaziare tra le sue culture di elezione, tracciando un percorso saporito che guarda alla gastronomia, al valore simbolico dei cibi e al nutrimento con uno sguardo sincretico tra letteratura e arte.
Il suo libro si intitola «Nagori». Nelle sue pagine si intuisce che questa parola possa essere annoverata nel «Dictionnaire des intraduisibles» di Barbara Cassin. Può darci alcuni elementi per aiutarci a intuire i contorni del suo significato, che in giapponese significa tantissimo?
Diciamo che tutte le parole possono essere traducibili. Se una parola è considerata intraducibile, è perché richiede una parafrasi e va contro l’economia della narrazione durante la traduzione di un romanzo. Se traduciamo una parola del genere parafrasando, essa occuperà uno spazio eccessivo nella narrazione e mostrerà la differenza culturale con la lingua originale piuttosto che lasciarci concentrare sulla lettura. Mentre alcune parole possono essere sostituite da altre parole, alcune parole possono essere tradotte solo da un’espressione, altre da una frase. Si potrebbe dire che Nagori è una parola che ha richiesto la lunghezza di un libro per coglierne il significato. È una specie di saudade, malinconia o nostalgia per ciò che abbiamo perso; ma a differenza della nostalgia, la perdita potrebbe non essere definitiva. E questo è il caso delle stagioni: la primavera arriva ogni anno. Anche quando la perdita o la separazione possono sembrare definitive, c’è sempre un «tra» la presenza e l’assenza, tra prima e dopo: come una persona che perdiamo per sempre, che accompagniamo a lungo nel pensiero. Nagori è precisamente questo spazio intermedio, la coda di una cometa. La vita stessa è inseparabile da nagori: perdiamo molte cose ogni giorno, oggetti, a volte l’amore, la giovinezza, a volte cose la casa, il paese a causa dell’esilio. Ma nagori ci accompagna nel nostro destino e cerca di resistergli, con i nostri mezzi certamente limitati. Ma dolcemente, con il pensiero.
In Europa diamo per scontato che dovunque le stagioni siano quattro e che il ritorno della stagione che aspettiamo si manifesti identico. Tuttavia, pur nella ciclicità, questi «ritorni» non sono mai uguali. In che modo secondo lei tali variazioni aprono alla libertà di ciò che è imprevedibile?
Non saprei se possiamo qualificare questo fenomeno come liberatorio. Il fatto che i ritorni delle stagioni non siano mai gli stessi da un anno all’altro non è né positivo né negativo, è semplicemente una realtà da sempre. Non nego però che l’umanità stia causando notevoli danni all’ambiente, che di anno in anno aggrava il riscaldamento globale, per esempio. Oltre a ciò c’è negli esseri umani un’idea preconcetta secondo cui il ciclo delle stagioni debba essere sempre identico. Ed è comprensibile quando analizziamo che dietro questa idea tenace c’è forse il timore di lasciare questa temporalità ciclica; senza di essa all’umanità resterebbe solo la temporalità lineare che spinge ogni giorno verso la morte. Neppure la temporalità ciclica salva, ma dona un senso di rinnovamento, di rinascita.
Evocando il cinismo di chi ha perso la meraviglia di fronte alle primizie, lei nomina la controparte di «coloro che, ancor più numerosi, sono condannati a vivere in quelle non-stagioni permanenti, fatte di farine, piselli, olio e barattoli di conserva, noti ai più poveri, e alle persone costrette a soggiornare nei campi per rifugiati». Quali disparità raccontano i cibi?
Il cibo racconta assolutamente tutte le disparità: tra uomini e donne (causa dei disturbi alimentari, perché le donne dovrebbero mantenere determinati profili secondo le civiltà); tra ricchi e poveri; giovani e anziani; tra i cosiddetti sani e i malati. In Nagori ho voluto sottolineare che queste disparità non incidono solo sulla qualità nutrizionale o sulla varietà dei cibi, ma anche sulla simbolicità di ciò mangiamo. Alcuni hanno la libertà di seguire le stagioni, altri si concedono lo sfizio di trasgredirle, e ci sono molte persone nel mondo per le quali la (non) stagionalità è imposta. Questo aspetto simbolico del cibo è molto più importante di quanto pensiamo.
Nel suo testo, accanto alla sensibilità per i ricordi che il cibo riesce a evocare, c’è moltissima poesia. Lei spiega come la forma tradizionale dell’haiku sia talvolta «insufficiente». In particolare fa riferimento ai disastri umani e ambientali a seguito di Hiroshima, ma anche all’incidente nucleare di Fukushima. Può spiegarci i limiti di quella celebrazione della ciclicità e della rinascita che l’haiku contempla?
Le parole legate alle stagioni, che il genere poetico haiku impone, introducono inevitabilmente alla nozione di tempo ciclico. La primavera torna, indipendentemente dalle vite umane. Questa temporalità conforta gli esseri umani, condannati a vivere in una temporalità che avanza in una sola direzione. Tuttavia non possiamo fare a meno della temporalità lineare per parlare dei fatti storici della storia dell’umanità. La conseguenza di una guerra, degli errori che abbiamo commesso, lascia le tracce in modo lineare e non possiamo fare affidamento sulle stagioni per cancellare le cose che sono esistite e «ripulire» la storia. Non è perché sta arrivando la primavera che la radioattività scomparirà; i fiori conterranno sempre il cesio sfuggito durante l’incidente alla centrale di Fukushima. Noi giapponesi abbiamo utilizzato spesso le metafore dei fenomeni naturali per parlare di storia, come se le intenzioni umane non esistessero, e gli incidenti avvenissero allo stesso modo di come cade la pioggia. Questa posizione mimetizza le nostre decisioni (o la mancanza delle stesse), come se non avessimo alcuna responsabilità. La stagione non risolve tutto, e certi espedienti letterari, per quanto belli, rischiano di essere un alibi per esonerarci da riflessioni storiche.
Nelle sue pagine, accanto al vitalismo che circonda l’idea di nutrimento, vi è un controcanto che vuole rendere «immortale» ciò che invece è deperibile. Lei paragona le conserve alla pratica della mummificazione, che è stato anche il tema del suo soggiorno romano a Villa Medici nel 2014. Può spiegarci il rapporto che il cibo intrattiene con la morte?
Il cibo è quel mondo esterno che assimiliamo ogni giorno, grazie al quale ci teniamo in vita, ma che ogni giorno ci conduce, un po’ di più, verso la morte. Tutto ciò che mangiamo è o è stato vivo (tranne il sale), ed è quel vivente, che diventando morto, ci fa vivere. È qui che sta il paradosso, ovvero la complessità del cibo. La conservazione e la mummificazione degli alimenti è ancora un’altra storia; entrambe sono pratiche per contrastare la morte (simbolicamente, perché né il cibo né le mummie sono viventi); rallentando all'estremo il processo di decomposizione, respingiamo l’idea di un corpo deperibile.
Durante il mio ultimo soggiorno in Giappone, mia madre mi ha regalato delle prugne salate preparate dalla mia bisnonna. Sono state preparate più di mezzo secolo fa. Devono essere state in questo mondo molto prima di me e senza dubbio mi sopravvivranno. Quando le ho assaggiate, ho sentito la mia bisnonna accanto a me, e ho capito: quel tipo di conservazione rivela come il pensiero e la presenza della persona possano restare, non scomparire da questo mondo.

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