VISIONI

Entrare nella zona «no comfort» di Carlos Vermut

Al Torino Film Festival la personale cult di un regista che apre disturbanti scenari futuri tra virtuale e reale
SILVANA SILVESTRIITALIA/torino

L’insostenibile quarto d’ora finale dei suoi film non fa di Carlos Vermut un appartenente al genere horror. Si potrebbe piuttosto pensare a lui come a un veggente del cinema, un decodificatore scientifico della percezione sensoriale, un magnifico attraversatore dei deprimenti anni duemila.
I suoi film presentati in una personale sono il cult del Torino Film Festival (25 novembre - 3 dicembre). Nei suoi interni marroncini, il colore dell’ombra, del silenzio, del mistero e del sangue rappreso, personaggi di poche parole, evocano profonde tragedie. Alba è una bambina che non vuole essere fotografata, un handicap in un film, si rischia l’assenza dell’immagine: è Diamond Flash (2011) storia di un misterioso supereroe che non si vedrà mai, solo evocato o suggerito tra i vari capitoli del film. Nel poster appeso nel tinello, Anouk Aimée e Trintignant in Un hombre y una mujer fanno da controcampo alla scialba coppia che non riesce a trovare la figlia e non può neanche dare una foto alla polizia perché non si è mai fatta fotografare.
SEQUENZE apparentemente statiche rischiano di esplodere di sottintesi paurosi tutti da decifrare. L’ombra del pedofilo si allarga attraverso stanze segrete, ricordi e incubi raccontati placidamente in cucina, argomenti terribili espressi con un linguaggio comune e perfino dimesso, esplodono in una violenza umprevista, In Mantìcore (2022) Julian crea «manticore», chimere, i mostri per i videogiochi, colpito al cuore da un ragazzino dell’appartamento accanto che salva da un incendio. Non c’è nessun contatto, solo una creatura virtuale creata da lui e resa palpabile dall’incontro con una ragazza, esatta sosia del bambino. Anche qui ci si muove in soggiorni asettici, lugubri corridoi, locali notturni. Tocca e fugge dalle costanti del gangster filmMagical Girl (Concha de oro al festival di San Sebastian 2014), quasi un’antologia di cinema noir e classico, con ricatti, estorsioni, colpi di scena, in tutto in un composto susseguirsi di movimenti che lo spettatore può riempire a piacimento, dal Buñuel di Belle de Jour, ai noir francesi con José Sacristan come un Jean Gabin, Barbara Lennie come una Catherine Deneuve. Luis Bermejo, l’insospettabile, non ha i soldi per comprare l’abito della magical girl dei comics che desidera sua figlia malata di leucemia e organizza un ricatto. In questo intreccio spericolato di comics, gangster film, melo, porno, plaza de toros con vestizione del torero (ma basta solo evocarla con l’annodare di una cravatta rossa) , Carlos Vermut rimette ordine nella sua costruzione ellittica. Ma l’ultimo quarto d’ora resta sempre letale. Impossibile accomodarsi, il suo scopo è individuare una zona profonda di disagio.
Qualcosa di diverso si avverte in «Quien te cantara», come una pausa di riflessione sulla fama raggiunta?
Sono una persona che non ha mai cercato la fama, non avevo contatti con nessuno, mi piaceva stare a casa a disegnare. Avevo voglia di fare un film più lirico, meno realistico, lontana dal mio modo di essere, in quella casa affacciata sul mare a Cadice.
Negli altri tuoi film la parola è centrale, suggerisce l’azione
Attraverso il realismo della parola appare lo straordinario, quello che di strano ha il mondo reale.
In genere ti associano a registi come Almodovar o Alex de la Iglesias, invece i tuoi film mi riportano alle atmosfere del tardo franchismo, Saura, Jaime Chavarri.
È vero, quei film sono più oscuri, malinconici. Almodovar, Alex de La Iglesias sono esplosivi, coprono di colori il dolore implicito della Spagna. Saura ha lavorato di più con la malinconia, il dolore rimasto anche dopo il franchismo, diceva che faceva un cinema meno politico e più psicologico, come Ana y los lobos o La Caccia. Mantiene un interessante equilibrio tra psicologico, politico e sociale. Tra le cose che mi interessano c’è il cinema giapponese, i videogames che utilizzo per sviluppare i miei personaggi nello loro svolte imprevedibili, come nel caso di Manticora fino a che punto possiamo arrivare nell’ambito privato fino all’uso reale della violenza.
Tocchi un tema pericoloso e tabù come quello della pedofilia.
Non mi interessava il tema della pedofilia in sé, ma come come la tecnologia moderna possa relazionarsi con questa e altre perversioni, una relazione tra tecnologia, la perversione e l’ambito del non reale, del fantastico, cioè come la tecnologia renda reale il fantastico.
Qual è il tuo metodo di ripresa?
Ad alcuni attori penso già prima, altri li aggiungo più tardi. Ho chiara in mente la sequenza: giro in maniera semplice, con pochi movimenti, poco apparato, senza gru, mi piace il movimento semplice della camera. Non mi piace tagliare, faccio piani lunghi: gli attori girano di seguito per 3 minuti e non è facile, è necessario ripetere la scena varie volte.
A dispetto della tua vasta corte di fan che ti ritengono un rappresentante del cinema horror, non appartieni a un genere codificato.
Ci sono quelli che pensano che sia un regista horror soprattutto dopo l’Avuela uscito a inizio anno, e come rappresentante di un «cine inquietante» invitano tutti i miei film al festival di Sitges.

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