VISIONI

Una casa possibile dal territorio al fotogramma

L’area dell’Ilva di Taranto e la sua comunità temporanea, migrazione e pandemia nelle Prospettive under 35
GIUSEPPE GARIAZZOITALIA/milano

A Taranto c’è un fiume, di nome Tara, che scorre nella periferia della città tra la folta vegetazione, melmoso, quasi nascosto, oltre le strade, ma conosciuto e amato da chi l’ha frequentato e continua a frequentarlo nonostante la cattiva condizione delle sue acque inquinate i cui valori sono fuori dalle norme. A questo fiume, alle persone che lo popolano, ai suoi dintorni e, più in generale, a Taranto - ma con uno sguardo differente dai tanti film girati nella città dei due mari, che qui fa da «sfondo», pur ben presente con il suo corpo al tempo stesso vivo e martoriato - è dedicato Tara (questa sera alle 19 al cinema Arlecchino di Milano nell’ambito della quarantaduesima edizione di Filmmaker), documentario di Volker Sattel (cineasta tedesco e direttore della fotografia, fra gli altri, di Europe di Philip Scheffner, altro titolo in concorso del festival, in visione domani alle 18.45 nella stessa sala) e Francesca Bertin (regista veneta che nei suoi lavori documentari esprime una particolare attenzione verso l’architettura e il mondo dell’arte).
«TARA» è la seconda collaborazione di Sattel e Bertin dopo La cupola del 2016. Il fiume tarantino è il personaggio principale del film, attorno a esso ruotano le tante figure che lo eleggono a posto privilegiato di incontro, di storie, a volte di leggende. Sono adulti e giovani. Fanno il bagno, si tuffano, stazionano, parlano, giocano. Le cose accadono sopra e sotto la superficie del Tara. Al di là, in lontananza, esistono quartieri, ponti, edifici industriali, case antiche, giardini, posti abbandonati, e l’ombra dell’Ilva o di discariche non regolamentate. Si tratta di luoghi da scoprire al pari del fiume e delle sue pieghe naturali, che servono ai registi per comporre un ritratto corale, sociale, ambientale di un territorio tra i più devastati d’Italia eppure resistente. C’è un attaccamento, fino all’incoscienza, da parte degli avventori del Tara. Molti di loro continuano a tramandarsi e a raccontarsi storie che parlano delle virtù guaritrici del fiume per esseri umani e animali, anche se la realtà dice ben altro e il film lo esprime attraverso il lavoro di una ricercatrice che fa rilevamenti dell’acqua attestanti il pessimo stato di salute dell’ambiente. Sattel e Bertin si immergono in quel set alternando al realismo strati più onirici, si pensi alla cavità di un albero percorsa da due donne che sembra fare da passaggio per entrare in un’altra dimensione. Alla fine si torna alle zone del fiume, ai ragazzini che camminano e chiacchierano, con la macchina da presa che si allontana da loro. Un film di vicinanze e distanze per riflettere, da un punto di vista inedito, sulla «questione Taranto».
ALTRE VOCI italiane presenti al festival offrono sguardi personali lavorando sul presente e sulla memoria. Nella sezione Prospettive oggi si potranno vedere (alle 19.30 al cinema Arcobaleno) due brevi opere che testimoniano questo percorso di ricerca: Attraversando «Strada a senso unico» - Viaggio intorno alla casa della mia vita di Aura Ghezzi e Acasa di Rebecca Grigore. Nelle loro diversità di stile e narrazione, i due film hanno parecchi punti in comune. Intanto, il coinvolgimento totale delle filmmakers nella realizzazione, non solo registe, ma autrici anche (Ghezzi) di fotografia, montaggio, suono, produzione e (Grigore) di sceneggiatura, montaggio, suono. Entrambe, poi, lavorano su una visione profondamente intima rappresentando (Ghezzi) il proprio vissuto oggi al tempo della reclusione dovuta alla pandemia e (Grigore) un periodo della sua famiglia romena rievocato dall’uso di archivi domestici. Inoltre, a mettere in relazione i film, è un corpo evidenziato fin dai titoli, quello della casa, di un appartamento, delle sue stanze da esplorare (Ghezzi) in prima persona e in solitaria e (Grigore) ricorrendo alla figura paterna.
Il film di Aura Ghezzi è composto di due titoli. Il primo, Attraversando «Strada a senso unico», è anche quello del progetto sul quale sta lavorando la trentaquattrenne regista e attrice romana, che si divide tra cinema e teatro; il secondo, Viaggio intorno alla casa della mia vita, che ha per sottotitolo Diari primavera-autunno 2020, fa da «introduzione» a quello che vedremo, ovvero la perlustrazione in soggettiva della sua abitazione durante il confinamento, sconfinando verso l’esterno (nelle prime e nelle ultime, che riprendono quelle iniziali, immagini) filmando da una finestra, con sguardo mosso e con-fuso, lampi di strade, palazzi, rari passanti. Lo sguardo vaga e si posa sulla moltitudine di oggetti sparsi nelle stanze, su un computer acceso che rimanda delle immagini, mentre la regista dichiara la propria presenza in voce e in corpo (la si vede riflessa in specchi nell’atto del riprendere e riprendersi). Pensieri sull’amore, l’esistere, generando altri sconfinamenti - nella letteratura, verso altre immagini da immaginare. La sua voce a volte si sdoppia, si offre a mutazioni recitative, «teatrali», anch’essa colta nelle espressioni e nei toni di uno stato di con-fusione con il quale co-abitare. Nell’esprimere, nel flusso di una sintesi flagrante, di una voce-corpo e di un corpo-voce, un buio e una luce tanto interiori quanto esteriori di fronte a quel sentimento cristallizzato nella frase «Prima di tutto, o dopo tutto».
UN ALTRO sradicamento, e un nuovo radicamento altrove, non facile, è narrato dalla ventiduenne Rebecca Grigore in Acasa. Ci sono tre livelli. Le immagini di home movies risalenti al 2000 (anno di nascita di Rebecca, a Padova) girate nell’appartamento italiano dove la famiglia della regista si stabilì e che costituiscono la base visiva di tutto il film. Nel 1996 il padre aveva lasciato la Romania e, dopo un mese, era arrivato in Italia di nascosto insieme ad altri. Il racconto di quel viaggio è consegnato alle didascalie che appaiono sulle immagini. La voce del padre oggi spiega la loro vita di allora. Grigore mantiene uniti i livelli, ognuno occupa un proprio spazio nelle inquadrature, quello che viene mostrato e quello che viene suggerito dalle parole trova un equilibrio diegetico, ma non porta a una chiusura, bensì invita a rintracciare ulteriori punti di fuga all’interno del materiale portato alla visione.

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