INTERNAZIONALE

Alessia Piperno è libera. Ma il regime reprime ancora

La blogger italiana è rientrata ieri a Roma dopo la prigionia nel famigerato carcere di Evin: «Sono stati 45 giorni duri»
FARIAN SABAHIiran/italia

«Eravamo sei in cella, sono stati 45 giorni duri», è stata la prima dichiarazione della blogger romana Alessia Piperno appena dopo l’atterraggio del Falcon 900 sulla pista dell’aeroporto militare di Ciampino.
AD ATTENDERLA i genitori e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Alessia Piperno era stata arrestata lo scorso 28 settembre a Teheran. In un post su Instagram aveva scritto: «Se un giorno l’Iran sarà un Paese libero è merito di queste persone, di queste ragazze che scendono in piazza e danno fuoco ai loro hijab, e a quegli uomini che stanno combattendo per le loro donne». Un commento come tanti sui social media. Ma Alessia Piperno era in Iran, dove si finisce in cella anche solo per un like. Detenuta nel carcere di Evin, ha vissuto il dramma dell’incendio la sera del 15 ottobre, in cui sono morti diversi detenuti. Restano in carcere gli altri otto occidentali arrestati con la trentenne romana. In queste settimane di proteste e disordini, per le autorità iraniane trattenere ostaggi occidentali serve a esercitare pressione: «È difficile immaginare che il governo italiano irrigidisca realmente le proprie posizioni nei confronti di Teheran quando cittadini italiani sono detenuti nelle carceri iraniane. La liberazione di un nostro cittadino si ottiene, evidentemente, negoziando e ammorbidendo l’atteggiamento politico», commenta Lorenzo Trombetta, esperto di Medio Oriente. Intanto in Iran le proteste continuano. Ieri nella cittadina di Rasht le ragazze ballavano, numerose, senza velo. Ma le forze di sicurezza hanno lanciato lacrimogeni e sparato.
LE AUTORITÀ esercitano pressione sulle famiglie delle vittime e degli attivisti: se partecipi alle proteste e vieni individuato, rischi che la casa di famiglia venga espropriata. Piperno è tornata a Roma, sana e salva, ma nelle prigioni iraniane restano migliaia di giovani che rischiano la pena di morte. «Si tratta di misure eccezionali di controllo e di repressione, tipiche di quei contesti in cui il governo centrale e i suoi rappresentanti locali devono far fronte, spesso in maniera improvvisa, a forme di contestazione e mobilitazione popolare interne massicce e trasgressive, nel senso che mettono in discussione le regole dettate dal potere», osserva Trombetta, autore del saggio Negoziazione e potere in Medio Oriente. Alle radici dei conflitti in Siria e dintorni.
Da vent’anni corrispondente per Ansa e LiMes da Beirut, lo studioso aggiunge: «Nella capitale libanese i media sono fortemente divisi tra quelli che sostengono il fronte filoiraniano e quelli più vicini alle posizioni saudite, del Qatar o dei paesi occidentali. Le posizioni si declinano a seconda delle affiliazioni ideologiche e clientelari, il dibattito pubblico risente molto di questa frammentazione. Certi ambienti della società civile libanese esprimono solidarietà nei confronti delle iraniane e degli iraniani che protestano, ma non credono che le proteste di piazza possano portare a un reale cambiamento e temono sia un inasprimento della repressione sia i rischi di influenze straniere nel processo di trasformazione politica».
A PROPOSITO della repressione, Trombetta osserva: «Alcuni settori più reazionari dell’establishment sono disposti a ricorrere a ogni espediente per mantenere non tanto la sicurezza del paese quanto le rispettive rendite di potere. Il ricorso sproporzionato della violenza poliziesca e militare causa vittime tra i civili e finisce per alimentare il dissenso».
Quando nei regimi autoritari le proteste sfuggono di mano, una delle vie percorribili è la strategia della tensione: «Si tratta di una tecnica di mantenimento del consenso e del potere a cui sono ricorsi, almeno nel corso del Novecento, anche alcune frange istituzionali e para-istituzionali di sistemi di governo detti democratici, in Europa occidentale. Il principio su cui si basa è quello del patto sociale moderno per cui lo Stato, formalmente titolare del monopolio della violenza, assicura la protezione dei cittadini da tutte le possibili minacce interne ed esterne alla “sicurezza” e alla “stabilità”».
In questo contesto, le autorità di Teheran accusano “i nemici” esterni di essere responsabili della “destabilizzazione” interna perché questo «fa parte della retorica del potere».
A PROPOSITO dell’aiuto iraniano alla Russia, Trombetta riflette sul fatto che «nei giorni in cui è scoppiata la guerra in Ucraina si era arrivati quasi a concludere positivamente l’accordo sul nucleare tra Stati Uniti e Iran. Con l’invasione militare russa sono cambiati alcuni equilibri e, nel frattempo, Washington e Teheran non solo non hanno trovato l’intesa, ma sono tornati ad accusarsi reciprocamente di essere responsabili del fallimento dell’accordo e hanno irrigidito le rispettive posizioni. In questo senso, l’Iran ha cercato alleanze con chi in questa fase storica si oppone ai progetti statunitensi, mantenendo però sempre il negoziato aperto con Washington. Sostenere la Russia serve a Teheran per alzare la posta con gli Stati uniti».
«È UNO STRUMENTO di pressione come lo sono le sanzioni occidentali all’Iran. Per Teheran, inviare i droni ai russi serve da carta negoziale che potrebbe essere ritirata dal tavolo qualora l’atteggiamento americano nei confronti dell’Iran dovesse cambiare».

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