VISIONI

Forlì Open Music, le sonorità «free» della rivolta dal rumore alla melodia

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MARIO GAMBAITALIA/FORLÌ

Il festival Forlì Open Music rientra nella cave di Area Sismica. Nella prima delle due giornate avvince A Trio, formato dai libanesi Mazen Kerbaj alla tromba, Sharif Sehnaoui alla chitarra acustica, Raed Yassin al contrabbasso. Su un fondale arcano in ostinato articolato di contrabbasso e chitarra, entrambi percossi con archetto e bacchette, il trombettista Kerbaj introduce una sonda nello strumento oppure aggiunge inusitate abnormi sordine e ottiene ogni sorta di diavoleria sonora. In realtà, grande musica. Informale, rumoristica, melodizzante, come di mondi lontani e sconosciuti. Con la tromba «vera» emette tutto meno che suoni di tromba: respiri, soffi d’allarme, sottili iperacuti, forse uccelli meccanici impazziti. Colpisce l’inventiva e la sapienza compositiva del gruppo.
LA VOCALISTA Ljuba Bergamelli è una virtuosa senza virtù. Cerchiamo di spiegare. La voce è limpida, le sillabe e le frasi recitate o semirecitate del suo set molto ambizioso e caratterizzato dalla ricerca dell’impertinenza, sono ben scandite e sgranate, ma la pronuncia in senso musicale rimane quella di un soprano di formazione accademica che ha voglia di «contemporanea» spregiudicata. Ottima voglia, ma l’esito di Stripsody di Cathy Berberian, di Sequenza III di Berio, di Pub 2 di Aperghis, di Solo for Voice di Cage è rivelato dai forti nella gamma intermedia che non hanno qualità se non di scuola.
Kaja Draksler o dell’enigma. Questa pianista slovena suona un primo brano che parte da una dovizia di gruppetti e acciaccature in una stessa zona della tastiera, episodio grazioso eppure straniante. Prelude a sviluppi diversi, presenze monkiane, divertimenti perversi, inutile chiedersi come va a finire: non c’è teleologia in Draksler. Poi c’è un estremista del sax alto nella prima giornata. Si chiama Chris Pitsiokos. Scompone lo strumento, soffia dalla parte della campana, emette suoni cavernosi gutturali, passa come se niente fosse a un bel brano melodioso atonale tra Konitz e Braxton.
Seconda giornata. Sergio Sorrentino con la chitarra elettrica suona il minuto di The Possibility of a New York di Morton Feldman ancora più «fuori dal tempo» ma ancora più per la perdizione di sé di fronte alla potenza del pensiero. Splendido. Non si ripete con Didkosky, Sani, Lansky e Sorrentino stesso, è davvero pedestre in una riscrittura dello Steve Reich di Electric Counterpoint. L’omaggio al compositore inglese James Erber è il miglior omaggio all’inutilità.
CHE SOLLIEVO subito dopo le musiche generose suonate al pianoforte da Emanuele Torquati! Il Satie di Trois Dances de Travers e di Sonatine bureaucratique è interpretato con attenzione a valorizzarne più l’impassibilità che le svenevolezze. Col Cage suggestivo di In a Landscape Torquati dribbla l’ambient e la new age in agguato. Che fare con l’impenetrabile Paolo Castaldi di Finale? Torquati asseconda i suoi accordi ribaditi che appaiono ispirati a un severo costruttivismo e forse vanno paragonati ai ready-made di Marcel Duchamp.
Giusto trionfo finale del radicalissimo quartetto Kaze. Un pianoforte: Satoko Fujii; una tromba: Natsuki Tamura; un’altra tromba: Christian Pruvost; una batteria: Peter Orins. Pruvost deforma il suono con una sonda infilata nel tubo, Tamura si limita a emettere suoni «strozzati» in continuum. Sui tuoni dei bassi del piano di Fujii le due trombe intrecciano un dialogo sapientissimo di polifonie e fugati in lingua post-post-bop. Ci sono momenti in cui il quartetto onora il caos, momenti in cui la tromba di Pruvost perde voce, sussurra, ci lascia… Eppure non è finita: dai bassi del piano arrivano segnali per la battaglia, le due trombe urlano iper-free, la batteria picchia senza metro e norma. Torna l’impero del free? Non è mai stato un impero. Torna il suono della rivolta.

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