CULTURA

Tra sfide e possibilità, il confine Svizzera-Italia fascista dal 1925 al 1945

INDAGINI
ENRICO PAVENTIITALIA

Con questo saggio, efficacemente intitolato La linea sottile. Il fascismo, la Svizzera e la frontiera. (1925-1945) (Donzelli, pp. 216, euro 26), lo storico Francesco Scomazzon rivolge la propria attenzione al tema del confine e, in particolare, alle complesse vicende che caratterizzarono quello tra l’Italia e la Confederazione Elvetica durante il ventennio indicato nel sottotitolo: una linea di demarcazione diventata talvolta impenetrabile, talvolta decisamente permeabile.
UN CONFINE che è stato ovviamente influenzato dalle relazioni tra i due Stati e dall’evoluzione dei loro rapporti: un processo sostanzialmente contraddistinto da una sorta di incontro-scontro tra un regime autoritario e una democrazia federale, tra l’Italia di Mussolini e un Paese situato al centro di intensi contatti con la Francia, la Germania e la Spagna martoriata dalla guerra civile.
Lo studioso sottolinea anzitutto come, utilizzando la locuzione «linea sottile», abbia inteso descrivere una situazione di precario equilibrio tra solidarietà e tradimento, salvezza e dannazione per gli antifascisti, i disertori, gli emigranti spinti dalle necessità economiche, i profughi di origine ebraica: dal momento che la politica della Confederazione nei loro confronti è stata, nel corso di quegli anni, assai mutevole. Il che, pur consentendo all’apparato poliziesco fascista di dispiegare la propria azione dal Ticino al Vallese fino ai Grigioni, ha altresì messo il confine in condizione di farsi fertile terreno di scambi, trasgressioni, contatti e riflessioni: un contesto destinato a rivelarsi fondamentale tanto nel modellare il destino delle future democrazie quanto nel porre le basi per i rapporti che, nel dopoguerra, avrebbero reso l’Italia e la Svizzera più vicine. Scomazzon aggiunge poi come, in particolare dopo il 1943, la Confederazione si sia trasformata da «paese di scambio» in «terra d’asilo». Egli, tuttavia, osserva: «Resta in piedi l’apparente e incolmabile distanza tra l’aiuto a persone in cerca di rifugio e la necessità di preservare rapporti ufficiali con gli Stati di loro provenienza».
LA CONFEDERAZIONE sembra dunque aver assunto ed essere rimasta, per anni, in una posizione ondivaga, sospesa tra la generosità dei singoli individui - disposti a trasgredire le severe direttive federali pur di accogliere i profughi braccati dal regime mussoliniano -, e l’ambiguo comportamento delle istituzioni pubbliche, desiderose soprattutto di tutelare i propri interessi economici. Scritto in maniera scorrevole, frutto di attente ricerche nonché di approfondite valutazioni, lo studio di Scomazzon, può vantare un indubbio merito, giacché esamina i due versanti della frontiera definendo quest’ultima una «fenditura che taglia una regione aperta, battuta da pattuglie incapaci di arginare fughe disordinate e occasionali diserzioni». Egli osserva inoltre come quella linea divisoria abbia visto tanto il fiorire di numerose attività assistenziali a favore dei perseguitati quanto il moltiplicarsi delle «attenzioni» di una dittatura che, andando via via radicalizzandosi, tendeva a considerare il confine italo-elvetico un luogo di collegamento tra gli antifascisti ancora attivi nel Regno d’Italia e quelli già presenti nella Confederazione.
C’È, ALLA BASE della sua disamina, il giudizio complessivo fornito dallo storico che appare assolutamente netto: egli ci ricorda che quello fascista fu un regime brutalmente repressivo il quale, prima di dare luogo alla persecuzione degli ebrei e di allearsi con la Germania nazista, aveva soppresso le libertà individuali e conferito alle istituzioni dello Stato una decisa impronta autoritaria. Una tirannia che aveva mostrato il proprio volto ben prima dell’approvazione delle cosiddette «leggi fascistissime»: gli anni successivi non avrebbero fatto che confermarne la natura.

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